Dott. Giuseppe Battimelli

Vice Presidente Nazionale AMCI

Certamente la pandemia da coronavirus emergente, SARS-CoV-2, la cui malattia è un’infezione del tratto respiratorio (COronaVIrusDisease-19), ha sconvolto la nostra vita quotidiana e se le mascherine, insieme ai guanti e al distanziamento sociale sono diventati gli elementi necessari della nostra vita di relazione, i dispositivi di protezione individuale (dpi) – occhiali, visiere, semimaschere, indumenti di protezione, ecc. – sono i requisiti di sicurezza indispensabili a protezione per i medici e gli operatori sanitari, soprattutto per quelli coinvolti negli ospedali e ancor più nelle terapie intensive, particolarmente esposti al rischio di contrarre il virus.


A causa del diffondersi dell’epidemia, questo distanziarsi dal malato per i medici risulta una condizione, ancorchè inderogabile, vieppiù limitativa della prassi dell’arte medica, che già da tempo soffre di un progressivo processo di spersonalizzazione, reso ora più acuto in questa dimensione emergenziale di interazione tra medico e paziente.
E se in tempi ordinari, l’esame clinico del paziente della vecchia semeiotica, seppure come detto ormai divenuto esiguo, rimaneva un cardine e che la capacità diagnostica-terapeutica del medico prevedeva un contatto umano anche attraverso i sensi, in tempi di elevata contagiosità infettiva vengono imposti metodi e strumenti di interazione a distanza, come visite e consulenze telefoniche, consulti in telemedicina, triage da remoto, accesso a piattaforme computerizzate, ecc.


Ma in questa breve riflessione, desideriamo sottolineare che in queste contingenze che viviamo, il dialogo ravvicinato del medico con il paziente avviene ormai spesso e talvolta soltanto attraverso gli occhi, sovente stanchi, affaticati, arrossati, interrogativi ma sempre limpidi per combattere il male e per dare coraggio, sostegno, incoraggiamento.


La storia del medico di frequente s’intreccia con quella dell’altro, magari persona sconosciuta, che aggravatosi arriva in urgenza in terapia intensiva e lo sguardo di entrambi può diventare drammatico, in quell’ultimo sguardo, quando la malattia sembra prendere il sopravvento.


La relazione s’instaura ora attraverso gli occhi in questa terribile e subdola patologia e tante volte vince la vita sulla morte e ci piace indagare su quello sguardo che dona salvezza.


C’è un guardare che non è più un semplice vedere, un osservare che non è solo indagare, ma foriero di gesti di professionalità e di umanità, soprattutto quando l’orizzonte della vita sembra restringersi sempre più.


Da uno sguardo nasce sempre un incontro: del medico con l’ammalato o meglio di un uomo con un altro uomo sofferente; in uno sguardo c’è la compassione, la partecipazione, la speranza e forse anche la terapia, perchè negli occhi c’è lo sporgere dell’intimo dell’uomo, la sua vera identità, la sua essenza, la sua anima, il luogo in cui Dio è presente.

E ci piace pensare che nello sguardo del medico si celi la benevolenza di Dio che davanti al malato “lo veglierà e lo farà vivere” (Salmo 41,2), perche Egli, “il Signore ha veduta la sua afflizione” (Genesi 29,32) e sempre “lo sosterrà sul letto del dolore” (Salmo 41,3).

Articolo pubblicato su FERMENTO – Mensile dell’Arcidiocesi di Amalfi Cava de’ Tirreni
Anno XXVII n.4 – Maggio 2020

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