GLI INTERROGATIVI SUL FINE VITA

Eutanasia, se in Olanda ormai basta un “senso di malessere
29 aprile 2017

Maurizio Calipari

I recenti dati diffusi sull’applicazione dell’eutanasia in Olanda mostrano senza ombra di dubbio che la deriva è ormai in atto. Per morire non servono più situazioni di incoercibilità del dolore fisico o di terminalità degradante, ma basta sperimentare un più generico “malessere” di vita e pensare che l’esistenza non abbia più senso e valore.

I numeri preoccupano, ma ancor più la realtà socio-culturale che essi lasciano intravedere. Ci riferiamo ai dati ufficiali del rapporto annuale (2016) – pubblicato qualche giorno fa – della Commissione di controllo (Rte) sull’applicazione della legge sull’eutanasia in Olanda. Dal 1 aprile 2002, data di entrata in vigore di quella norma, i casi di eutanasia “legale” registrati sono stati in costante aumento, superando per la prima volta l’anno scorso i 6.000 decessi (6.091). Con un aumento del 10,4% rispetto al solo 2015! Nel Report ufficiale, non mancano, ovviamente, casi accertati di pratiche eutanasiche in violazione della legge (trasgressione delle procedure previste), per lo più attuati da medici superficiali o senza scrupoli.

Ma è ancor più impressionante il progressivo (e rapido) allargamento delle condizioni che ormai, di fatto, giustificano il ricorso alla “dolce morte”, pur in assenza di modifiche sostanziali della legge olandese. Basti pensare che, nei primi anni della sua applicazione, circa l’83% dei casi riguardava malati terminali di cancro; successivamente, l’eutanasia è stata applicata ad altre patologie (Parkinson, sclerosi multipla, malattie cardiovascolari gravi, demenza, cecità e disturbi psichici), anche senza che il richiedente si trovasse in uno stadio terminale. In particolare nell’ultimo anno, sono più che raddoppiati i casi di eutanasia per demenza o malattie psichiche.

Dunque, non si tratta più di situazioni di incoercibilità del dolore fisico o di terminalità degradante, ma di persone che, sperimentando un più generico “malessere” di vita, giungono (o chi per loro) a pensare che la loro esistenza non abbia più senso e valore nel contesto della “evoluta e civile” società olandese e che, quindi, è preferibile ricorrere alla morte anticipata tramite eutanasia.

Forse che, passo dopo passo, – in Olanda come in altri Paesi – anche chi sperimenta solo tristezza intensa o delusione o altri disagi persistenti potrà ricorrere legalmente all’eutanasia o al suicidio assistito? Perché no? La logica in fondo sarebbe la stessa! Tant’è che, tra i politici olandesi che aspirano ad accaparrarsi una poltrona nel prossimo governo in formazione, non manca chi (ad es. il partito di centrosinistra D66) propone addirittura di estendere la possibilità di eutanasia a tutti coloro che abbiano compiuto i 75 anni, indipendentemente dalle loro condizioni di salute, purchè desiderosi di concludere il loro percorso di vita, ritenuto ormai senza senso.

In realtà, questo preoccupante quadro sta creando allarme e qualche ripensamento persino nella stessa Commissione nazionale di controllo, che ha deciso perciò di vigilare con più attenzione, nei prossimi anni, sulla prassi applicativa dell’eutanasia in Olanda. Ma è davvero difficile che un oggetto in caduta su un “piano inclinato” possa rallentare o fermare la sua corsa.

Piuttosto, alla luce di simili dati, bisognerebbe porsi domande che vanno al di là di semplici “aggiustamenti tecnico-applicativi” della legge. Forse, occorrerebbe aprirsi ad interrogativi ben più profondi e radicali. E non solo gli amici olandesi, ma ciascuno dei nostri Paesi cosiddetti “avanzati”.
Quale modello di società stiamo costruendo per il futuro? Quale tipo di umanizzazione sociale stiamo proponendo per noi e per le generazioni future? Qual è il bene comune da costruire insieme e per chi vale? Fa paura infatti una comunità in cui, chi “non ha (o non ha più) i requisiti” di una vita considerata (da chi?) felice o utile, sia “civilmente” orientato verso tristi programmi di morte.

Possibile che le nostre società non vogliano più tentare di dare una risposta di vita autentica e di speranza a chi fa esperienza della malattia, del dolore, della sofferenza, o più semplicemente è disadattato rispetto ai canoni sociali vigenti? Possibile che non debba più avere senso credere ed impegnarsi nella solidarietà reciproca, nel prendersi cura di chi è “fragile”, del farsi carico delle condizioni umane degradate? Davvero l’unica cosa che saremo in grado di dire a queste persone è “ti è permesso anticipare la tua morte”?

Val la pena riflettere, serenamente e senza pregiudizi. Forse, siamo ancora in tempo a ricentrare il nostro “vivere comune” sulla dignità umana di ciascuna persona, per la vita, non per la morte.