Il bambino Alfie Evans e le autentiche cure palliative.

Pubblico e sottoscrivo il contributo del prof. don Roberto COLOMBO, docente di biochimica alla facoltà di Medicina e Chirurgia A.Gemelli.

+ Elio Card. Sgreccia.

La vicenda umana del bambino inglese di 22 mesi, Alfie Evans, affetto da una grave patologia neurodegenerativa di probabile origine genetica e sinora non ascrivibile precisamente a nessuna malattia descritta nella letteratura medica, sta suscitando una commozione, una preoccupazione e un dibattito tra i cittadini del Regno Unito e di altri Paesi che ricordano quelli dell’estate scorsa intorno al piccolo Charlie Gard e alla contesa etica e giuridica che opponeva i suoi genitori ai medici dell’ospedale londinese GOSH. Due storie cliniche e personali che, pur presentando alcune similitudini, sono tuttavia segnate da tratti differenti. I dati clinici disponibili, raccolti e riassunti nella sentenza del giudice Hayden del 20 febbraio, consentono di rilevarne alcuni.

1. Anzitutto, nel caso di Charlie si era in presenza di una diagnosi clinica certa, supportata da un inequivocabile reperto genetico-molecolare: una rarissima forma di malattia da deplezione del DNA mitocondriale causata da una mutazione nel gene RRM2B. Per Alfie, i test sinora eseguiti per i geni più comuni che causano malattie neurometaboliche (mitocondriali e non), inclusa la forma infantile precoce della ceroidolipofuscinosi neuronale (malattia di Santavuori-Haltia), hanno fornito esito negativo. Come suggerito dagli specialisti dell’Ospedale Bambino consultati, rimarrebbe l’analisi dell’intero genoma (o almeno dell’esoma) come ulteriore tentativo diagnostico-molecolare, dall’esito però non certo.

Di conseguenza, per Alfie nessuna possibilità terapeutica è razionalmente prospettabile (neppure una sperimentale, come era quella a base di desossinucleosidi proposta, ma non attuata, per Charlie nei mesi in cui il suo quadro clinico neuromuscolare non era ancora degenerato). Siamo di fronte ad una patologia non contrastabile con le conoscenze diagnostiche e terapeutiche disponibili – anche solo in fase di sperimentazione, non clinicamente validate – e, dunque, ad una malattia attualmente “inguaribile”. I neuropediatri che hanno in cura il bambino presso l’Alder Hey Children’s Hospital di Liverpool, e altri specialisti che hanno esaminato la sua cartella clinica e lo hanno visitato, sono giunti alla conclusione che Alfie è purtroppo avviato verso un processo di «progressiva» e, «assai probabilmente, fatale neurodegenerazione», per la quale «non vi sono opzioni terapeutiche disponibili in grado di arrestare o invertire» il decorso. Il deterioramento clinico ingravescente è chiaramente documentato dalla semeiotica neurologica, dalle immagini della Risonanza Magnetica cerebrale più volte acquisite (dal novembre 2016 al febbraio 2018) che mostrano estese e progressive lesioni in diverse aree, e dal tracciato elettroencefalografico fortemente anomalo, nonché dalla refrattarietà al trattamento con alcuni farmaci anticonvulsivanti. Le frequenti crisi epilettiche resistenti al trattamento farmacologico e alla dieta chetogenica appaiono essere la conseguenza, e non la causa, di una grave encefalopatia infantile progressiva che interferisce pesantemente con lo sviluppo del bambino. Tuttavia, diverse funzioni fisiologiche che dipendono dal tronco encefalico (come il controllo della temperatura corporea e l’omeostasi idrica e elettrolitica) appaiono pressoché integre, e l’attività cardiaca, pur con qualche episodio di bradicardia, risulta sostanzialmente «stabile» e in grado di assicurare «una perfusione centrale e periferica e una pressione ematica normale». Il bambino, secondo il criterio cerebrale di accertamento della morte, non è considerato come deceduto. E neppure versa in prossimità della morte, la quale, pur prevedibile sulla base del quadro clinico neurodegenerativo, potrebbe verificarsi anche a distanza di parecchio tempo.

2. Il riconoscimento della futilità di ogni possibile terapia, che appare ragionevolmente come sproporzionata rispetto alle aspettative e potenzialmente gravosa per il piccolo paziente, suggerisce – secondo i medici che ne hanno valutato attentamente la condizione clinica – il passaggio alle cure palliative. Anche i suoi genitori, Kate James e Thomas Evans, ultimamente non stanno chiedendo di sottoporlo ad una terapia (neppure una sperimentale dall’esito incerto, che non è disponibile, a differenza del caso di Charlie Gard quando era nei primi mesi della sua malattia). Essi domandano con comprensibile insistenza che questo figlio possa continuare a vivere tutti i giorni che gli restano da vivere (quanti, nessuno lo può dire), circondato da amorevoli cure essenziali che il personale sanitario e loro stessi possono dargli per tutto il tempo che sarà necessario.
Di fronte alla prospettiva condivisa di abbandonare ogni “accanimento terapeutico” per abbracciare la dimensione della cura non terapeutica («Della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura»; Papa Francesco, Messaggio ai partecipanti al Meeting regionale europeo della World Medical Association, 7 novembre 2017), si profilano due diverse accezioni di “cure palliative”. Una di esse ne assume il concetto secondo una flessione coerente con il “prendersi cura” del malato sino all’ultimo istante della sua vita, che «restituisce umanità all’accompagnamento del morire, senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere» (Papa Francesco, Messaggio citato). L’altra, invece, sospendendo non solamente le terapie ma anche i supporti vitali indispensabili per la vita, non presenta un significato etico «diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte» (Papa Francesco, Messaggio citato). Anzi, tende a mascherare l’eutanasia attraverso la sua forma apparentemente più “dolce” e “pietosa” (falsamente) che è quella omissiva: non applica una procedura direttamente e immediatamente letale, ma conduce alla morte anticipata per privazione dell’essenziale per vivere.

3. Le autentiche cure palliative, invece, uniscono al controllo dei sintomi (incluso quello del dolore, con una appropria analgesia che può giungere, in alcuni casi, alla sedazione a scopo analgesico, quando ogni altro approccio antalgico risulta inefficace) la fornitura di un apporto idratativo, nutrizionale e, ove richiesto dalla fisiopatologia respiratoria, anche ventilatorio. Da quanto si apprende dalla sentenza del giudice britannico, i medici del Bambino Gesù, nell’offrire la loro consulenza per la cura palliativa di Alfie e la disponibilità a realizzarla presso il loro ospedale vaticano, hanno prospettato come appropriato «che venga eseguito un prolungato supporto ventilatorio con una tracheostomia chirurgica. Nutrizione e idratazione sono state fornite artificialmente da diversi mesi attraverso un tubo nasogastrico, ed è evidente l’indicazione di una gastrostomia» (PEG) per continuare questi due supporti vitali nel passaggio alle cure palliative. Cure che accompagneranno il paziente fino all’esito terminale della sua malattia, senza anticiparne la morte.
Quanto chiesto dai medici di Liverpool e deciso dal giudice Hayden sembra andare – come avvenne per il bambino Charlie – nella direzione di una concezione della palliazione che ha uno scopo e applica dei protocolli differenti. Il trattamento con analgesici e la sedazione profonda non servirebbero esclusivamente a controllare i sintomi algici derivanti dalla patologia in corso nel bambino con un dosaggio dei farmaci appropriato per questo solo scopo, ma verrebbe attuato – con altre composizioni e dosaggi diversi – al fine evitare la sofferenza del piccolo paziente in conseguenza della sospensione dei supporti vitali (ventilazione, idratazione e nutrizione). Sospensione che risulterebbe la causa prossima del suo decesso anticipato attraverso un atto eutanasico omissivo. Non siamo infatti di fronte ad un paziente di cui sia stata accertata la morte secondo il criterio cerebrale, per il quale sarebbe lecito sospendere ogni supporto vitale in quanto egli non è più vivente. Pur affermando che il piccolo Alfie presenta un elettroencefalogramma chiaramente e gravemente anomalo ed estese lesioni cerebrali, e che stimoli appropriati per tipologia e intensità non evocano in lui le risposte attese, i medici britannici non hanno avviato le procedure medico-legali per dichiarane la morte clinica. E – come osservato da un medico consulente nella sua deposizione dinnanzi alla Corte – vi è preoccupazione da parte dei sanitari che un eventuale trasporto del bambino in una struttura ospedaliera all’estero (a Roma o in Germania, come richiesto dai genitori) possa mettere a rischio la sua vita, che si suppone così essere tuttora pienamente in atto e non ormai prossima alla morte.

4. Sorprende il fatto che nel verdetto della Corte di Giustizia londinese venga citato per esteso, a sostegno della motivazione della sentenza, un ampio brano del già ricordato Messaggio di Papa Francesco del 7 novembre scorso, ad introduzione del quale il giudice afferma – parafrasando alcune espressioni del Santo Padre, di cui elogia il «supplemento di saggezza» – che «non adottare o sospendere misure sproporzionate può evitare un trattamento eccessivamente scrupoloso [over-zealous]». In cosa esattamente consisterebbe, nel caso di Alfie, il «trattamento eccessivamente scrupoloso» non viene precisato dal magistrato. A ben vedere, però, in nessuna delle parole del Papa da lui citate (e in nessun passo del Messaggio o di altri testi di Papa Francesco e del Magistero cattolico precedente) tale riconosciuto «supplemento di saggezza» considera come uno scrupolo deprecabile il continuare a fornire al malato inguaribile il supporto fisiologico che gli consente di vivere. Al contrario, un simile sostegno vitale non terapeutico – «nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Risposta a quesiti della Conferenza episcopale statunitense circa l’alimentazione e l’idratazione artificiali, 2007) – non può mai venire lecitamente interrotto. Farlo significherebbe anticipare intenzionalmente con un atto omissivo la morte del paziente, pur inevitabile nel tempo, e questo non rientra negli scopi delle cure palliative né in altro compito della medicina. Peraltro, sono gli stessi medici che hanno esaminato Alfie e i referti delle indagini diagnostiche strumentali eseguite su di lui a constatare uno «stato semi-vegetativo», condizione clinica che lo avvicina – per alcuni aspetti e pur con le differenze del caso pediatrico – a quella oggetto del discernimento operato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella risposta ai vescovi degli Stati Uniti, che riguarda i pazienti in stato vegetativo.

Se è vero, come ricorda una parte del Messaggio del Papa non citata dal giudice britannico, che dobbiamo «sempre prenderci cura» del malato «senza accanirci inutilmente contro la sua morte», nello stesso paragrafo il Santo Padre ci ricorda il dovere morale di curarlo «senza abbreviare noi stessi la sua vita». Perché «l’imperativo categorico» – sono sempre le sue parole, anch’esse non riportate nella sentenza – «è quello di non abbandonare mai il malato», di non scartare alcuna vita umana condannandola ad una morte anticipata perché giudicata (con che diritto?) non degna di essere vissuta.

Come ha ricordato nel luglio dello scorso anno, su questo stesso sito, il cardinale Elio Sgreccia a proposito di quella «sorta di “accanimento tanatologico” nei confronti del piccolo Charlie» che stava volgendo al suo drammatico epilogo, «inquieta la leggerezza con cui si accetta il paradigma della qualità della vita, ovvero quel modello culturale che inclina a riconoscere la non dignità di alcune esistenze umane, completamente identificate e confuse con la patologia di cui sono portatrici o con le sofferenze che ad essa si accompagnano. Giammai un malato può essere ridotto alla sua patologia, giacché ogni essere umano non cessa, un solo istante e ad onta della sua condizione di malattia e/o di sofferenza, di essere un universo incommensurabile di senso che merita in ogni istante l’attenzione china di chi vuole incondizionatamente il suo bene e non si rassegna a considerare la sua come un’esistenza di serie B per il solo fatto di versare nel bisogno, nella necessità, nella sofferenza. Un’esistenza alla quale si farebbe un favore cancellandola definitivamente».

Se una sentenza intende giustificare un ulteriore passo verso la “cultura dello scarto e della morte” non lo faccia usando strumentalmente alcune parole del Papa, il cui significato, nel testo stesso e nel contesto del Magistero della Chiesa, si muove nella direzione opposta, quella della “cultura dell’accoglienza e della vita”, di ogni vita umana che ha origine da Dio da Lui solo è fatta giungere al termine dell’esistenza terrena.

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