Il diritto di accompagnare fino alla fine

di Elio Sgreccia

La vicenda di Charlie Gard si è conclusa mestamente, con un coro di rimpianto e con segnali di solidarietà verso i genitori; tuttavia ritengo che sia mancato qualcosa che pur bisogna dire.
Ritengo che a Chris e Connie Gard sia stato tolto e impedito un diritto che fa parte del loro essere genitori: quello di vedere morire il bambino sulle loro braccia, e di vederlo morire naturalmente.
I tempi della vita sono due: c’è il vivere, ma c’è anche il morire.
Sul vivere i genitori hanno speso tante premure, prima e dopo la nascita; premure che si ha il dovere di spendere anche sul morire.

Alle volte non si può agire con le terapie perché si tratta di un morire fatale, che non ha rimedi, ma questo non vuol dire che è un “niente”. Il morire è una parte del vivere, e anche se non può essere fermato con le terapie o, come in questo caso, sospeso con una sperimentazione, è comunque un momento importante dell’esistenza. Avviene naturalmente, quando l’organismo non è in grado di ricevere più né cibo, né acqua, né alimentazione né idratazione. Solo quando il corpo non ne assume più, si sospendono, perché sarebbe una violenza somministrarli per forza, ma finché li riceve e ne ha bisogno è doveroso darli. Il morire di sete è molto doloroso, e non farebbe altro che aggiungere dolore alla morte.

Nessuno deve “staccare”. Chi autorizza a staccare?
È l’organismo che si stacca quando sente che non è più capace di reggere un’esistenza, quella spirituale, più grande di noi, e questo momento del morire, che può prolungarsi per giornate, per mesi, alle volte per anni, va accompagnato.

Madre Teresa ha accompagnato i suoi malati a morire fino alla fine, e non è che cercasse di guarirli tentando di invertire il loro destino, perché non si sentiva medico, e nè andava con la chirurgia o con i ricoveri, ma li assisteva con cure, con una tazza di latte, una carezza, ed è quello che l’ha fatta sentire madre. Questo è un esempio di come si assiste il morire, senza che nessuno si arroghi il diritto di “staccare”.

Staccare cosa? E chi ne avrebbe il diritto?

Quello di interrompere la vita di Charlie è una cosa che i genitori hanno accettato volentieri o che hanno subito? L’hanno scelto o si sono sentiti anch’essi influenzati ormai da una forma di accettazione che ci sia qualcuno che decide, al di sopra della natura, quando uno deve morire?
Staccare silenziosamente, in assenza dei genitori, lontano da occhi indiscreti, i tubi che permettono il sostentamento vitale, mi sembra una violenza al diritto dei genitori, e soprattutto alla dignità del morente. Solo dopo aver esalato l’ultimo respiro è lecito staccare.

Questo mi sento di dire perché se non lo dicessi mi sembrerebbe che la commemorazione della nascita di Charlie, che cadrà il 4 agosto prossimo, non sarebbe completa. E anche perché vorrei scongiurare quel rischio, che non credo sia del tutto ipotetico, che questo sistema di staccare quando un gruppo ritiene si debba staccare, passi dal bambino, malato speciale come Charlie, agli adulti, e che qualcuno un giorno possa venire a dire anche a me, quando è ora, che è tempo di staccare.

Io lascio detto già adesso che non voglio che nessuno stacchi nulla, si staccherà l’anima quando riterrà che il corpo sia diventato insufficiente per contenerla. E il sapere che la vita prosegue, che la vita continua, che l’essere ha un futuro, ci obbliga a onorarlo fino all’ultimo momento e di portare tutto il rispetto che è dovuto al paziente, e ai genitori che hanno avuto il coraggio di assisterlo per molti mesi e con particolare difficoltà.

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