Considerazioni su suicidio e suicidio assistito

Dott. Ermanno Pavesi

Membro della Presidenza FIAMC

Gli aspetti sociali del suicidio sono stati oggetto di discussioni già nei secoli passati. Dopo la pubblicazione nel 1774 de “I dolori del giovane Werther”, nel quale Johann Wolfgang Goethe (1749-1832) descrive i tormenti e il suicidio del protagonista, ci sono stati, per esempio,  casi di giovani che si sono tolti la vita seguendone l’esempio. Le modalità di questi suicidi non lasciavano dubbi sul ruolo che il racconto aveva avuto nella loro dinamica. Oggi non è possibile valutare la dimensione di quel fenomeno, allora, però, ha avuto un’eco tale, che la diffusione del libro fu proibita in alcuni stati tedeschi dai rispettivi governi. Anche oggi suicidi, soprattutto se pubblicizzati dai mezzi di informazione, possono innescare fenomeni di emulazione, un fenomeno che gli specialisti chiamano “effetto Werther”.

Anche lettori de “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”, di Ugo Foscolo (1778-1827) avrebbero imitato il suicidio del protagonista. Nel libro, pubblicato nel 1802, Foscolo, ispirandosi all’opera di Goethe e al suicidio di uno studente dell’università di Padova, che peraltro non aveva lasciato alcuna spiegazione del suo gesto, ha cercato di descriverne il travaglio interiore, conclusosi con il suicidio, in una serie di lettere nelle quali esprime la propria delusione per quello che gli sembrava il tradimento degli ideali della Rivoluzione francese da parte di Napoleone Bonaparte e per una delusione amorosa.

La possibilità che anche cronache giornalistiche sui suicidi avrebbero potuto innescare fenomeni di emulazione è stata avanzata già nel XIX secolo e ai giornalisti era stato consigliato di non fornire dettagli precisi nei loro articoli, in particolare di non descrivere possibili motivazioni, di non presentare il suicidio come soluzione di problemi e di non menzionarne neanche il metodo. Si era costatato che, in alcuni casi, articoli potevano aver suggerito a persone con problemi analoghi non solo la convinzione che il suicidio potesse essere una soluzione giustificabile dal punto di vista razionale, morale e sociale ma che avrebbero potuto anche quasi fornire indicazioni pratiche su come togliersi la vita.

In una monografia sul suicidio pubblicata nel 1897, un importante sociologo francese, Émile Durkheim (1858-1917), si è dichiarato contrario a regolare l’uscita degli articoli di cronaca nera: “Taluni autori, attribuendo all’imitazione un potere che non ha, hanno chiesto che venisse vietata ai giornali la cronaca dei suicidi e dei delitti. È possibile che questo divieto riesca ad alleggerire di qualche unità l’ammontare annuo di questi atti. Ma è alquanto dubbio che esso possa modificarne il tasso sociale”. Come sociologo Durkheim era interessato soprattutto ai grandi fenomeni sociali, nel caso del suicidio al tasso annuale di un Paese. Effettivamente i casi attribuibili all’effetto Werther non sono così frequenti da poter modificare tale tasso, ma Durkheim stesso ammette che si possa verificare in singoli casi. La possibilità di “alleggerire di qualche unità il numero annuale di suicidi può giustificare discrezione nelle cronache dei suicidi.

Una trasmissione della rete televisiva tedesca ZDF ha creato una situazione, che, con le sue tragiche conseguenze, ha fornito quasi una dimostrazione sperimentale dell’effetto Werther. Negli anni 1981 e 1982 è stata trasmessa per due volte una serie in sei puntate dal titolo ‘Morte di uno studente’. Ogni puntata analizzava sotto un’ottica particolare, come i rapporti con i genitori, con i compagni e con gli insegnanti, il suicidio apparentemente incomprensibile di un giovane, che nella storia si era gettato sotto il treno, svelando ogni volta gravi conflitti dietro un’apparente normalità. Questa trasmissione ha avuto un notevole successo e una vasta eco. Ricercatori tedeschi hanno dimostrato però che, per un periodo di settanta giorni in concomitanza e immediatamente successivo alla trasmissione, il numero di persone che si sono uccise gettandosi sotto il treno era aumentato statisticamente, con un massimo per i giovani in età tra i 15 e i 19 anni, quindi dei coetanei del protagonista, con un incremento del 175% . Sono stati soprattutto giovani a immedesimarsi nei conflitti del protagonista e, come lui, a decidere di togliersi la vita. Una persona in crisi può essere influenzata nelle sue decisioni anche dai modelli di soluzione che gli vengono offerti.

Una serie televisiva Netflix trasmessa nel 2017 e proseguita nel 2018 ha riproposto quasi a livello planetario il tema della possibilità dell’“effetto Werther”. Si tratta della trasposizione filmica del libro dello scrittore statunitense Jay Asher, dal titolo originale 13 reasons why e tradotto in italiano come 13. Uno studente di una scuola superiore di una cittadina degli Stati Uniti riceve un pacco senza mittente con alcune audiocassette numerate. Il pacco gli era stato spedito da una sua compagna di scuola che prima di uccidersi aveva registrato sulle cassette “13 ragioni” sufficienti per commettere il suicidio con accuse rivolte a varie persone a proposito di vari temi, come droga, violenza sulle donne, suicidio e mobbing. La seconda serie del 2018 si presenta come continuazione e approfondimento dei temi esposti nella prima.

Queste serie hanno provocato reazioni opposte. Per alcuni hanno avuto il merito di aiutare i genitori, e gli adulti in genere, a comprendere problemi e apprensioni dei giovani, anche di quelli legati a situazioni nuove. Per altri, invece, la serie tende piuttosto a drammatizzare tali problemi e non sembra condannare esplicitamente il suicidio che apparirebbe, tutto sommato, come una scelta accettabile. Dopo queste polemiche la rete televisiva ha aggiunto alcune liste di centri specializzati per la prevenzione dei suicidi o anche di consultori per giovani. In alcuni paesi agli adolescenti ne è stata consigliata la visione in compagnia di adulti.

Il 12.17.2018 il quotidiano di Zurigo Tagesanzeiger ha riportato la notizia che nel centro di psichiatria infantile di Zurigo vi erano stati 40 casi di ricoveri collegabili alla visione della versione tedesca della serie.

La sindrome presuicidaria

Il concetto di sindrome presuicidaria, coniata dallo psichiatra austriaco Erwin Ringel (1921-1994), può aiutare non solo a comprendere le dinamiche del suicidio ma anche l’effetto Werther.

Erwin Ringel può esser considerato un pioniere degli studi sul suicidio: nel 1949 ha esaminato personalmente, o con l’aiuto dei suoi collaboratori, tutte le 745 persone che erano state curate dopo un tentativo di suicidio alla Clinica psichiatrica dell’Università di Vienna e ha raccolto i risultati della sua ricerca in un libro dal titolo: Il suicidio. Esito di uno sviluppo psichico patologico. Quest’opera rimane un punto di riferimento per gli studi sul suicidio. Non minori sono i meriti di Ringel in campo pratico: con l’aiuto dell’organizzazione assistenziale cattolica Caritas ha dato vita a un centro specializzato per la prevenzione dei suicidi che é stato di esempio per la costituzione di innumerevoli centri e consultori analoghi in altri paesi.

Pur riconoscendo la possibilità di suicidi commessi in seguito a un accurato e ponderato bilancio della propria vita, Ringel considera la stragrande maggioranza dei suicidi come esito di uno sviluppo patologico che porterebbe a una condizione particolare, la sindrome suicidaria, caratterizzata da tre sintomi: la Einengung, – che potremmo tradurre come “restringimento”, “chiusura”, “vicolo cieco” – , l’auto-aggressività repressa e le fantasie di suicidio.

  1. Einengung

Può sembrare lapalissiano che chi progetta di togliersi la vita si trova in una situazione di chiusura, nella quale non riesce più a vedere una via di uscita. Questa situazione può avere diverse cause riconducibili a gravi forme di disturbi mentali, come episodi gravi di depressione e di schizofrenia, a tossicodipendenze, a crisi personali di vario tipo, per esempio sentimentali, finanziarie, giudiziarie e così via.

Secondo Ringel, in condizioni normali l’uomo ha relazioni in vari ambiti, e quando si trova in una grave crisi in uno di questi, è possibile trovare ancora un senso della propria esistenza negli altri. Uno dei presupposti della sindrome presuicidaria, invece, è uno sviluppo psichico patologico con la fissazione su una sola persona o su un solo ambito. Per esempio, una crisi sentimentale può suscitare una crisi suicidaria tanto più grave, quanto più si è fissati sulla persona amata e si è convinti che la vita senza questa persona non avrebbe più senso. Questa fissazione provoca la Einengung, l’incapacità di vedere che la vita offre altri aspetti e che è degna di essere vissuta anche se l’amore per una persona non viene ricambiato. In questa prospettiva la decisione di togliersi la vita non sarebbe veramente un atto libero, non c`è la volontà di morire, anzi c’è il desiderio profondo di vivere, anche se questo sembra possibile solo a una determinata condizione, ad esempio con la persona amata.

2. Auto-aggressività

Un tentativo di suicidio presuppone una certa quantità di auto-aggressività che per un certo periodo è stata repressa. Non raramente il tentativo di suicidio ha scaricato questa energia, e le persone appaiono più tranquille e non più intenzionate a togliersi la vita.

     3. Fantasie suicidarie

Le fantasie suicidarie presentano differenti aspetti. Prima di tutto ciascuno ha una concezione del suicidio che dipende tanto dalla cultura nella quale è cresciuto come dalle convinzioni religiose, che ne possono influenzare il tasso. Fino a non troppo tempo fa il suicidio era considerato come “un gesto disperato” deprecabile, che spesso la famiglia cercava di presentare come un incidente o di spiegare con una diagnosi medica.

Per quanto riguarda le modalità con le quali viene effettuato, a seconda della regione il suicidio viene collegato con uno o alcuni metodi particolari, ad esempio con un determinato ponte o un edificio da cui gettarsi, con l’intossicazione da gas domestico o con l’ingestione di medicinali.

Nel singolo caso le fantasie suicidarie possono avere una lenta evoluzione: All’inizio può cambiare l’atteggiamento nei confronti della morte, che non viene più considerata solo come un male o una sciagura, ma apprendendo la notizia del decesso di una persona si incomincia a pensare che per lei, forse, può essere stata una liberazione. In una fase successive appare indifferenza nei confronti anche della propria morte, che si può manifestare, per esempio, in una guida spericolata,  che diventa come una specie di “roulette russa”. Oppure compaiono desideri passivi di morte, ci si augura di addormentarsi e di non svegliarsi più. Successivamente compaiono idee suicidarie, che spesso sono  caratterizzate fino alla fine da una forte ambivalemza: si oscilla tra la convinzione che non sarebbe più possibile vivere in una certa condizione e situazioni nelle quali, invece, ci si accorge di essere ancora legati alla vita. Si tratta di situazioni differenti come il pensiero dei parenti o l’incontro con conoscenti. Molto spesso lo sviluppo delle idee suicidarie è lungo, si deve decidere come, dove e quando togliersi la vita, ci si deve procurare i mezzi necessari. Quando le idee sucicidarie diventano concrete, diventano anche più frequenti le situazioni nelle quali ci si rende conto che queste non si ripeteranno più, che non si rivedranno più certi parenti, non si incontreranno più certi amici, che ci si trova per l’ultima volta in un certo luogo. In tali momenti, nei quali per così dire ci si deve congedare dalla propria esistenza ci si può accorgere tutto sommato di essere ancora legati alla vita e quindi si può mettere in dubbio la decisione di uccidersi.

Nell’ultima fase la decisione si concretizza, il tentativo viene progettato, preparato e messo in atto. Ma, come accennato, l’ambivalenza è presente fino alla fine. Ci sono persone che anche dopo aver progettato a lungo il suicidio, e aver fatto chilometri per recarsi su un determinato ponte, una volta arrivati continuano a essere indecise, restano tanto a lungo a guardare nel vuoto appoggiate al parapetto fino ad insospettire i passanti.

Quanto è stabile la volontà di morire?

Sembra scontato che chi tenta di togliersi la vita abbia effettivamente la volontà di morire, intendendo come volontà una decisione stabile nel tempo. Una tale opinione non tiene conto dell’ambivalenza: in molti casi fino all’ultimo non è certo se prevarrà la sensazione di non poter più vivere oppure il legame alla vita. Non mancano neanche i casi di persone che, dopo aver ingerito dei medicinali, si pentono del loro gesto e chiedono aiuto. Inoltre, dopo un tentativo di suicidio fallito la maggioranza delle persone è contenta di essere ancora in vita ed effettivamente sono solo pochissimi i casi di chi a breve distanza di tempo ripete il tentativo con successo, come dimostrano numerosi studi.

David Owens, professore di psichiatria all’Università di Edimburgo, per esempio, ha raccolto i dati di 90 studi che avevano analizzato i dati dei suicidi dopo un tentativo fallito: entro un anno il 16% per cento delle persone aveva ripetuto un nuovo tentativo senza esito letale, mentre circa il 2% aveva commesso un suicidio, percentuale che sale al 7% a distanza di 9 anni. Quindi, a distanza di un anno, più dell’80% non ha ripetuto il tentativo e circa il 98% è ancora in vita.

Si deve sottolineare la grande differenza tra coloro che dopo un tentativo di suicidio fallito si sono tolti la vita e quelli, invece, che non hanno utilizzato un metodo letale neanche nel tentativo successivo, in questi casi si tratta probabilmente di atti di auto-lesionismo piuttosto che di tentativi di suicidio. Con auto-lesionismo si intende un comportamento che provoca danni alla propria persona ma senza intenzioni suicide. A volte può essere difficile fare una distinzione tra queste due tipologie, ma ci sono pazienti che compiono anche numerose volte atti di auto-lesionismo, per esempio assumendo sempre le stesse dosi eccessive ma non letali di medicinali o procurandosi ferite da taglio superficiali ai polsi, senza mai mettere in pericolo la propria vita.

Dopo un tentativo di suicidio una prevenzione sicura al 100% non è possibile. Se una persona lo vuole effettivamente, non è possibile impedirle di togliersi la vita e, prima o poi, ci riesce. Se tutti coloro che hanno tentato un suicidio avessero effettivamente avuto la volontà, intesa come decisione certa e irrevocabile, di togliersi la vita, dopo il fallimento del primo tentativo avrebbero avuto la possibilità di ripeterlo dopo breve tempo, utilizzando un metodo più efficace. Ma un anno dopo il tentativo di suicidio il 98% era ancora in vita. Il 7% di suicidi nei 9 anni successivi al primo tentativo può essere spiegato con la correlazione esistente tra rischio di suicidio e disturbi con un decorso ricorrente o cronico, come forme depressive, tossicodipendenze o schizofrenie.

Suicidio e malattie incurabili

Negli ultimi anni suicidio e suicidio assistito vengono giustificati per lo meno per accondiscendere il desiderio di una “morte dolce” di malati incurabili. Può essere interessante ricordare i pareri degli esperti nei decenni passati secondo i quali le malattie incurabili non aumentavano il rischio di suicidio:

  “Si deve anche confutare la tesi che considera il suicidio come una morte desiderata da molti malati incurabili, poiché diverse ricerche hanno mostrato che questi pazienti non presentano una percentuale di suicidi aumentata e quindi non rappresentano neanche un gruppo con un particolare rischio di suicidio”.

    Un momento particolarmente difficile è senz’altro quello in cui la diagnosi di un tumore maligno viene comunicata al paziente, ma, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, il timore che il malato potesse compiere un suicidio, almeno in passato, era del tutto infondato in quanto questa situazione non determinava l’aumento del rischio di un suicidio.

    Anche il professore Friedrich Stiefel dell’Università di Losanna sottolineava che: “La relazione tra cancro e suicidio è complessa. In una percentuale di casi di suicidio che non deve essere sottovalutata il tumore è solo un fattore che si aggiunge ad altri ed eventualmente scatena l’azion”.

   Stiefel raccomanda quindi di prendere accuratamente in considerazione i fattori, specifici e non, che possono influenzare il rischio di suicidio in ammalati di cancro. Una assistenza adeguata, che tenga conto degli aspetti somatici e psichici, può ridurre ulteriormente tale rischio.

Mezzi di comunicazione e suicidio

Gli studi citati e le considerazioni svolte possono aiutare a comprendere meglio la possibile influenza dei mezzi di comunicazione sul suicidio. Senza voler relativizzare la libertà dell’uomo non si può neppure assolutizzarne l’autonomia, ma si deve tener conto che quando l’uomo prende una decisione lo fa anche in base a valori e a convinzioni  che gli sono mediati per molte vie, dall’educazione alle mode culturali e, non ultimi, dai mass media.

Per questi motivi un esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dopo aver ricordato il ruolo importante dei mass media nel “provocare o incoraggiare un comportamento suicida”, raccomanda “nell’interesse della prevenzione dei suicidi che i mezzi di comunicazione esercitino estrema prudenza e riservatezza nelle notizie riguardanti suicidi, nella pubblicazione di articoli o nella messa in onda di programmi riguardanti casi di comportamento suicida. Dovrebbe essere stabilito che tale materiale e il modo di presentarlo dovrebbero essere discussi con esperti di comportamento suicida e di prevenzione prima di essere resi pubblici”.

Questo appello è molto importante in quanto richiama chi lavora nel settore dei mezzi di comunicazione alla responsabilità derivante dall’influenza esercitata da tali strumenti sul comportamento umano, una responsabilità ricordata anche da san Giovanni Paolo II secondo cui “la situazione nella quale vive l’uomo contemporaneo […] è caratterizzata da una vasta e complessa condizione di schiavitù in campo morale. Il peccato dispone oggi di mezzi di asservimento delle coscienze ben più potenti ed insidiosi che nel passato. La forza contagiosa delle proposte e degli esempi cattivi può avvalersi dei canali di persuasione offerti dalla multiforme gamma dei mezzi di comunicazione di massa. Avviene così che modelli di comportamento aberranti vengono progressivamente imposti alla pubblica opinione non solo come legittimi, ma anche come indicativi di una coscienza aperta e matura. Si instaura così una rete sottile di condizionamenti psicologici, che ben possono assimilarsi a vincoli inibitori di una vera libertà di scelta. Il Vangelo di Cristo deve essere oggi annunciato dalla Chiesa come fonte di liberazione e di salvezza anche nei confronti di queste moderne catene che inceppano la nativa libertà dell’uomo”.

Il suicidio assistito

Attualmente l’opinione pubblica viene ripetutamente confrontata con la questione del suicidio assistito e della sua legalizzazione. In Internet non è difficile trovare siti che forniscono non solo istruzioni precise su come togliersi la vita in modo indolore, ma in certi casi offrono anche la vendita di medicinali potenzialmente letali o che indicano come affidarsi a organizzazioni specializzate nel proprio paese o all’estero. Le attuali discussioni pubbliche sul suicidio assistito e la sua legalizzazione possono aver un effetto considerevole sul numero dei suicidi, come è avvenuto in paesi nei quali sono attive organizzazioni che forniscono assistenza a chi vuole togliersi la vita.

Questo effetto dipende da vari fattori tra i quali la pubblicizzazione del suicidio assistito e l’offerta di istruzioni o di aiuti sicuramente letali. Il suicidio non viene più considerato come un “atto di disperazione”, ma come una scelta non solo razionale, moralmente accettabile e condivisa dai parenti, ma che viene anche proposta come affermazione di libertà e autonomia. Una concezione che non tiene conto dell’ambivalenza che accompagna quasi sempre le idee suicidarie. Crisi e situazioni difficili non possono essere evitate nel corso della vita, e nei casi più gravi è comprensibile che compaiano sentimenti come scoraggiamento, frustrazione, smarrimento con la sensazione di non essere in grado di superare la crisi. In questi casi si può sviluppare una sindrome presuicidaria, con alti e bassi. In situazioni nelle quali una persona si sente impotente e ha bisogno di aiuto, è importante che riceva un aiuto a superarla, in un consultorio specializzato, in un gruppo di auto-aiuto, con la sensibilizzazione di certe professioni che vengono a contatto con persone a rischio. Il pericolo è però che la pubblicità data al suicidio assistito influenzi queste persone e le induca a considerare il suicidio come la soluzione migliore.

Il pericolo della liberalizzazione del suicidio assistito e della sua pubblicizzazione diventa evidente se si tiene conto dei dati, già ricordati, sulla sopravvivenza dopo un tentativo di suicidio fallito. Naturalmente, è impossibile sapere se tutti gli aspiranti suicidi richiederebbero il suicidio assistito, ma quelli che lo facessero non avrebbero chance alcuna di sopravvivere, non avrebbero la possibilità di superare il momento di disperazione e di ritrovare il senso della vita, non avrebbero né la possibilità di chiedere aiuto dopo aver ingerito una dose eccessiva di medicinali, né quella di rallegrarsi per il fallimento del loro tentativo.

La propaganda del suicidio assistito può quindi provocare tanto un aumento dei suicidi a causa del cambiamento dell’atteggiamento nei suoi confronti, quanto un aumento dei tentativi con esito letale per l’uso di metodi “sicuri” con o senza l’aiuto diretto di persone esperte nell’assistenza al suicidio.

Sviluppi inquietanti della bioetica

La discussione sul suicidio assistito e sulla sua legittimità rientra anche nel campo della bioetica, cioè dell’etica delle discipline mediche e delle loro applicazioni. Negli ultimi decenni esponenti di rilievo della bioetica hanno assunto posizioni discutibili. In nome del pluralismo delle società moderne hanno negato l’esistenza di principi morali con valore assoluto, e in nome dell’autonomia del paziente hanno relativizzato il ruolo di diagnosi e indicazioni poste dai medici nelle decisioni per certi interventi: indicazioni e legittimità di questi interventi non dovrebbero essere decise dal medico ma dal paziente. Premesso che un paziente ha in principio il diritto di rifiutare le terapie, non può però avere il diritto assoluto di pretendere un determinato intervento medico, ma secondo Edmund D. Pellegrino (1920-2013), uno dei maggiori esponenti della nuova bioetica: „Dal punto di vista ‚moderno‘ noi non possiamo conoscere ciò che è bene per il paziente senza conoscerne i desideri. La scelta del paziente è un bene semplicemente perché lui lo desidera. Per fare il bene del paziente noi dobbiamo fare il bene che lui desidera”. Secondo questi principi, per quanto riguarda il suicidio assistito, il paziente è l’unico a poter decidere se la sua situazione è insopportabile, non più degna di essere vissuta e quindi è competente per richiedere il suicidio assistito.

Proprio su questo punto c’è stata in Svizzera un’importante presa di posizione della “Camera medica”, una sorta di parlamento della Federazione dei medici svizzeri costituita da cento membri, che nella riunione del 25 ottobre 2018 ha deciso di non accludere come allegato degli statuti la nuova versione delle linee-guida sul “fine-vita” elaborata dalla Accademia Svizzera delle Scienze Mediche, perché prevedono tra le condizioni per il suicidio assistito una “sofferenza insopportabile”. La Camera medica ritiene che si tratti di un concetto giuridico impreciso che può provocare insicurezza nei medici. Si tratta di una situazione paradossale, proprio l’Accademia Svizzera delle Scienze Mediche che tra le sue priorità ha il “chiarimento delle questioni etiche in relazione al progresso medico”, e che dovrebbe rappresentare in qualche modo la coscienza morale dei medici svizzeri, propone di legittimare eticamente la partecipazione dei medici al suicidio assistito, contraddicendo il principio che l’arte medica deve servire alla vita e non alla morte.

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