EROISMO DEI MEDICI E COLPA PROFESSIONALE: RIFLESSIONI E PROPOSTE

APR 4, 2020

  1. La pandemia Covid-19 ha fatto riscoprire alla nostra società l’essenzialità del servizio sanitario e, all’interno di esso, delle categorie dei medici e degli infermieri.
    Il Servizio Sanitario Italiano, che era divenuto uno dei migliori del mondo – secondo forse  a quello francese – sia per l’eccellenza degli specialisti che vi lavoravano che per la quasi totale gratuità delle cure, ha subìto un declino inarrestabile a partire dal 2011, allorché il Governo Monti, imitato senza eccezioni dai Governi successivi, ha tagliato in modo lineare le spese per la sanità, costringendo le Regioni – competenti  nella materia – a cancellare ospedali, a ridurre i posti letto, a non dare ricambio agli operatori pensionati per limiti di età, a contenere le spese per le strumentazioni mediche necessarie nella clinica e nella chirurgia contemporanea.
    Non è di questo che mi interesserò in questa nota. Il tema richiederebbe per vero una approfondita e rigorosa inchiesta da parte della politica, una volta che i responsabili di questa strategia suicida saranno stati schiodati dai posti di comando che ancora oggi detengono.
    Desidero piuttosto dire alcune cose circa i protagonisti sul campo di questo servizio, i medici, in primo luogo, e, poi, gli infermieri professionali e le figure assistenziali che collaborano nella cura dei malati e nell’assistenza a coloro che si trovano prossimi alla soglia della morte.
    Il discorso non può essere speditivo,  come se – alla maniera invalsa nella massmediatica corrente – il rimedio fosse dietro l’angolo e bastasse qualche piccolo movimento cartaceo per migliorare la condizione dei medici e del personale di assistenza e, conseguentemente, la qualità dei servizi. Occorre partire da lontano per guardare le cose un poco dall’alto e per comprendere meglio per quali ragioni si è giunti a questo punto.
  1. Oggi, come accennavo, si è riscoperta l’importanza dei soggetti protagonisti della cura e dell’assistenza. Ma la riscoperta, se pure corredata dai riconoscimenti all’eroismo di molti, non coglie l’essenziale. L’essenziale è che è stata perduta quasi completamente la nozione sacrale dell’attività curativa dei medici e – per riflesso – di tutti i loro collaboratori.
    Il giuramento di Ippocrate, risalente al IV secolo avanti Cristo, ha preservato nel tempo sacra l’opera del medico. Egli si prende cura del bene più prezioso – dopo l’anima immortale – che abbiano gli uomini, la salute del corpo e della psiche. Il giuramento nella formula originaria è una dedicazione di se stesso agli dei della salute – ad Asclepio medico, in particolare – di praticare l’arte in modo irreprensibile:  di regolare il proprio tenore di vita, anzitutto, per il bene dei malati; di evitare a loro ogni danno od offesa; di non somministrare ad alcuno, neanche su richiesta, dei farmaci mortali; di non consegnare ad alcuna donna un medicinale abortivo; di rispettare la privatezza delle abitazioni e di entrarvi soltanto per il sollievo dei malati; di astenersi “da ogni azione corruttrice sul corpo delle donne e degli uomini, liberi e schiavi”; in sintesi, di custodire “con innocenza e purezza”  la propria vita e la propria arte.
  2.  Ancora oggi il giuramento è pronunciato da ogni medico, al momento dell’ingresso nella professione in una forma deliberata dalla Federazione Nazionale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri il 13 giugno 2014. Il giuramento è introdotto con le parole del medico: “Consapevole dell’importanza e della solennità dell’atto che compio e dell’impegno che assumo giuro….”.
    Gli obblighi assunti con il giuramento sono nobilissimi.  Tra essi spiccano l’impegno a “perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica, il trattamento e il sollievo della sofferenza nel rispetto della dignità e libertà della persona cui con costante impegno scientifico, culturale e sociale ispirerò ogni mio atto professionale”, nonché di “non compiere mai atti finalizzati a provocare la morte”.
    Anche il giuramento di oggi conserva ben chiaro e visibile il significato di sacralità dell’opera del medico.
    Perché allora stupirsi che i medici – come gli infermieri – in un coro unanime di impegno si siano spesi e si stiano spendendo per arginare le ferite e le morti inferte alla collettività dalla pandemia e non si siano risparmiati, a costo di subire essi stessi il contagio e di essere portati alla morte?
  3. Ci si è stupiti – io penso – perché la società, nella sua quasi interezza, ha perso la vera nozione della professione del medico. Occorre, dunque, togliere questo spesso velo di oblio e riacquistare la memoria delle ragioni per cui è sacra la cura delle malattie, l’assistenza alla morte e il sollievo delle sofferenze. Occorre, più ancora in profondità, scoprire le cause di questo oblio e individuare gli idòla falsi che hanno sostituito nella psiche collettiva l’idea veridica del medico e della medicina.
    Gli idòla sono tanti, ma fondamentalmente tre: il primo, l’idolo dell’onnipotenza tecnologica contro la morte e la malattia, idolo vano e frustrante, perché contraddetto dall’esperienza quotidiana, eppure instillato con pervicacia nelle menti dei nostri contemporanei; il secondo, l’idolo del contrattualismo, che mercifica l’opera del medico e la parifica a una prestazione di facere versus un risultato; terzo, l’idolo dell’autonomia assoluta del paziente, che sarebbe competente non solo a pronunciarsi sulla migliore terapia, spesso in antagonismo con il medico, ma, addirittura, a decidere sulla propria morte e a costringere il medico a violare il giuramento, infliggendogliela.
    Questi tre idoli si sono insinuati nella nostra mente tramite l’enfatizzazione unilaterale di buone idee. È vero che la tecnologia ha fatto molto per il miglioramento delle cure, eppure, come ogni mezzo, è limitata in quanto non può cambiare la nostra natura creaturale e, pertanto, deve essere limitata dai vincoli etici che preservano la dignità del paziente e del curante. È vero che il medico assume un obbligo, che può avere anche natura contrattuale; eppure l’obbligo non è assimilabile a quello di un negozio di diritto privato, sia perché non è un obbligo di risultato, bensì di scienza e di diligenza, sia perché non può essere regolato dai criteri del diritto privato, in quanto il fallimento del risultato dipende in larghissima misura da fattori – il decorso della malattia, anzitutto, nel concreto vissuto del paziente – che non sono tutti perfettamente controllabili dal medico. È vero che il paziente è portatore di diritti e di facoltà che gli spettano in guisa personalissima; eppure anche la sua volontà è limitata, per un verso, dalla mancanza di scienza e competenza e, per un altro verso, dai criteri etici diretti a salvaguardare la sua dignità  di persona.
  4. Questi idòla hanno inquinato la professione medica e intorbidato la sua comprensione da parte della collettività. Gli effetti della fallace credenza negli idòla si ripercuotono pesantemente sull’esercizio della professione, creando difficoltà nel compimento delle attività curative.
    Gli effetti negativi vanno ravvisati, anzitutto, nell’ingratitudine dei pazienti e dei loro familiari e nella svalutazione dell’opera medica; in secondo luogo, nella colpevolizzazione giudiziaria indiscriminata dei medici; in terzo luogo, nella diffusione delle pratiche di medicina difensiva.
    In questo momento particolare, nel pieno sviluppo della pandemia, alcuni sciacalli, indegnamente appartenenti all’Avvocatura, cercano di approfittare della situazione, ricercando clienti sui social dietro promessa di perseguire casi di presunta malasanità che potrebbero essere avvenuti in questa fase convulsa di contenimento della malattia e di cure prestate in condizioni di emergenza, in molti casi senza i mezzi e i dispositivi di protezione necessari per salvaguardare la propria salute.
    Questa pratica di sciacallaggio, che proviene dagli Stati Uniti, si è diffusa anche in Italia a seguito delle sciagurate “liberalizzazioni” selvagge delle professioni legali disposte dal Ministro Democratico Bersani nell’anno 2006. Prima di queste misure, distruttive anch’esse della sacralità della professionale legale, non si potevano avviare iniziative propagandistiche volte ad attrarre clientela, né era lecito stipulare patti di “quota lite” con il cliente in relazione al “bottino” eventualmente ottenuto all’esito del processo. Ricordo che, proprio in quegli anni, come Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Torino, feci incontri e conferenze ufficiali per dissuadere i colleghi dall’approfittare delle liberalizzazioni, contrastato da coloro che, ritenendosi ormai svincolati dalle regole tradizionali, iniziavano a organizzarsi per l’attrazione di clientela, spesso dando vita a non limpide associazioni di consumatori.
  5. Come contrastare queste iniziative e, più in generale, come operare al fine di dare serenità all’opera dei medici?
    La responsabilità penale colposa dei medici è il settore nel quale si è consumata la colpevolizzazione della categoria. Negli ultimi anni sono intervenute ben due riforme, riuscite peraltro non soddisfacenti, allo scopo di limitare i casi di responsabilità penale medica.
    A monte vi è stata l’impropria disapplicazione da parte  della giurisprudenza dell’art. 2236 del codice civile, che contemplava un limite circa il grado della colpa al fine di configurare la responsabilità penale per colpa professionale. I geometri legali – magistrati e teorici astratti del diritto – , facendo leva sul principio dell’unità dell’ordinamento giuridico, ritennero che la limitazione della colpa medica alla colpa grave fosse discriminatoria e avvantaggiasse arbitrariamente i medici rispetto agli altri cittadini.
    Come se fosse paragonabile la colpa in materia di circolazione stradale, radicata sulla violazione di regole certe di prudenza e di diligenza, alla colpa medica, in relazione a situazioni in cui il medico deve risolvere problemi tecnici di speciale difficoltà, ove le scelte diagnostiche e terapeutiche non sono univocamente predeterminabili, in relazione a quadri patologici complessi e suscettibili di diversificati percorsi terapeutici, ciascuno dei quali aperto a controindicazioni di rilevante spessore!
  6. Ora è difficile ritornare indietro. La mia opinione personale è che la responsabilità colposa medica debba essere riservata esclusivamente al foro civile. E ciò per una pluralità di ragioni: sia perché la responsabilità colposa medica si accerta normalmente tramite un contraddittorio cartolare tra i consulenti delle parti; sia perché lo strepitus fori che si verifica nel processo penale, è controproducente per la lucida trattazione degli ardui temi tecnici oggetto della responsabilità medica; sia, infine, soprattutto, perché occorre sottrarre i medici alla pena del processo.
    Tutti ormai riconoscono che il processo penale è una pena anticipata per il colpevole, ma ancor peggio, che è una pena ingiusta per l‘innocente. All’esito dei procedimenti penali, la grandissima parte dei medici viene prosciolta; eppure ha subìto la denigrazione dei media, particolarmente virulenti specie in sede locale; ha patito il sospetto dei colleghi; ha vissuto con sofferenza la diffidenza delle autorità amministrative sanitarie; ha, infine, atteso per anni che si concludesse il faticoso itinerario necessario per la formazione della prova, non sempre  celermente ricercata dagli organi della pubblica accusa e talora verificata con ritardo dall’autorità giudicante.
    Comprendo che questa proposta sia radicale e possa apparire a molti, soprattutto se magistrati o teorici astratti del diritto penale – inaccettabile. La  mia esperienza di avvocato – ed anche le mie convinzioni di esperto di diritto penale – mi inducono con forza a ritenere che la scelta proposta è l’unica ragionevole al fine di consentire ugualmente, da un lato, l’affermazione della giustizia nell’ambito di un contraddittorio in sede civile e, dall’altro, di liberare la classe dei medici dal timore di essere gettati dentro la ruota stritolatrice del processo penale.

Mauro Ronco – Emerito di Diritto penale all’Università di Padova, Presidente del Centro studi Rosario Livatino