Premessa: Cinque osservazioni critiche sulla proposta filosofica del transumanismo

Don Michele Aramini

Qui diamo per conosciuto ciò che costituisce il cuore della filosofia transumanista. L’atteggiamento da adottare nei confronti di questo movimento intellettuale non può essere quello della pura e semplice liquidazione, ma piuttosto quello di una discussione di merito, che riguardi sia l’effettiva fattibilità di un mutamento così radicale della natura umana, sia la desiderabilità delle sue conseguenze. Per questa discussione necessaria possiamo sollevare le seguenti questioni.

 

  • Fattibilità

 

Per quanto riguarda il primo aspetto, si deve sottolineare il carattere molto speculativo degli scopi centrali del transumanesimo: se la radicale trasformazione dell’umanità che esso preconizza comprende la possibilità di un potenziamento illimitato delle capacità cognitive e di un’effettiva vittoria sulla malattia e la morte, è difficile pensare che si tratti di obiettivi realisticamente perseguibili.

Basta pensare alla diffusione sempre maggiore delle patologie neurodegenerative, per le quali attualmente non vi sono rimedi efficaci, o alla strada ancora da fare per comprendere e combattere i meccanismi patologici di molte tra le principali cause di morte, come numerosi tumori, per rendersi conto che questi obiettivi sono al momento inconcepibili; d’altro canto, si può notare che anche l’individuo transumano sarebbe pur sempre suscettibile alle malattie, in quanto esposto all’attacco di nuovi agenti patogeni, coevoluti con esso. Ciò non varrebbe solo nell’ipotesi estrema che si giunga al superamento della condizione biologica, ossia a un individuo a tal punto ibridato con parti meccaniche da costituire una sorta di robot altamente ingegnerizzato. Questa prospettiva, davvero inquietante, sembra al momento potersi relegare nel campo della pura fantascienza. Quanto più invece il programma transumanista si limita a perseguire risultati più modesti, tanto più diventa realistico. L’ipotesi di una certa accelerazione di processi già in atto, come alcune forme di ibridazione uomo-macchina, un consistente incremento della speranza di vita, un rilevante potenziamento delle capacità di attenzione, memoria, ragionamento, non configura però un effettivo superamento della condizione umana: l’uomo così potenziato sarebbe ancora un individuo biologico – e perciò sottoposto a vincoli naturali –, anche se più longevo, dotato di un’intelligenza quantitativamente più potente e di un corpo largamente integrato da dispositivi tecnologici o informatici (come già oggi avviene per semplici macchinari come il pace maker). Questo pare un esito plausibile e perfino probabile, ma indubbiamente assai lontano dai più ottimistici scenari transumanisti. Si tratterebbe ancora di un individuo in una condizione corporea, plasmato dai propri desideri e dalle proprie emozioni, dotato di molti più mezzi per soddisfare i propri bisogni, ma capace di interrogarsi su come usarli, perché in grado di porsi la domanda sui propri fini e sul senso della propria vita. Occorre in ogni caso chiedersi se sarebbe ragionevole o desiderabile cercare di produrre un simile risultato.

I transumanisti propongono esplicitamente di passare da un’evoluzione biologica guidata dalla natura a un’evoluzione diretta dall’essere umano; la tecnoscienza contemporanea potrebbe infatti indirizzare l’evoluzione in maniera da produrre più rapidamente quei benefici altrimenti realizzabili soltanto nei tempi lunghi dell’evoluzione naturale. Le obiezioni standard, a questo proposito, sono due.

Da un lato, quella che accusa questo progetto di orgoglio prometeico (hybris), ovvero sottolinea che è folle presumere di saperne a sufficienza e che non siamo affatto in grado di intervenire sui meccanismi naturali evitando danni irreparabili; dovremmo invece adottare il principio di precauzione, lasciando che sia la natura a occuparsi dell’evoluzione (nature knows best). Dall’altro, l’obiezione che fa leva sul carattere “innaturale” dell’intervento modificativo; proprio perché l’essere umano è il vertice della creazione, si sostiene che non gli sia lecito farsi diverso da come è stato creato: la natura umana non può dunque essere modificata e l’obiettivo di andare “oltre” l’uomo risulta intrinsecamente immorale.

 

  • Saggezza della natura

 

La prima obiezione sottolinea la “saggezza” della natura rispetto alla inevitabile insipienza dei progetti umani.

Essa ha indubbiamente una sua pertinenza, dal momento che è difficile pensare che gli esseri umani possano fare meglio, e in un tempo molto più breve, quanto la natura realizza attraverso lunghissimi processi che avanzano con grande lentezza, per tentativi ed errori. Al tempo stesso, però, sembra ragionevole la replica dei transumanisti che osservano come l’evoluzione naturale fosse appropriata per condurre l’umanità fino allo stadio attuale, mentre l’evoluzione diretta è necessaria per provvedere ai nuovi scopi che l’umanità oggi si propone; d’altro canto, proprio l’evoluzione naturale ci ha condotti a poter disporre di strumenti di intervento i quali rendono sensato ricercare nuovi scopi. La possibilità di produrre effetti collaterali negativi deve certo essere tenuta presente come richiamo costante alla prudenza nella sperimentazione, ma non si può presumere che gli effetti negativi eventualmente derivabili siano senz’altro superiori ai benefici che ci si può attendere (Bostrom N. – Sanderg A., «The Wisdom of Nature: An Evolutionary Heuristic for Human Enhancement», in Savulescu J. – Bostrom N. (edd.), Human Enhancement, Oxford University Press, Oxford (2009), 375-416.).

 

  • “Contro natura”

 

Più rilevante, se adeguatamente intesa, pare la seconda obiezione. I transumanisti amano dire che caratteristica della natura umana è il fatto di non avere natura, ossia che l’umanità non può essere concepita come un’essenza fissa e immutabile, a pena di assumere una posizione radicalmente antidarwiniana; perciò, dire che la natura umana non può essere cambiata presuppone una concezione metafisica discutibile e superata.

In realtà, il riferimento all’idea di natura umana è del tutto compatibile con il riconoscimento della vocazione dell’uomo a modificare se stesso e il proprio ambiente naturale e con l’affermazione della capacità umana di trascendere le proprie condizioni attuali. Tale riferimento sottolinea però, in primo luogo, i limiti naturali di questa capacità dell’uomo di plasmare se stesso: ad esempio, ci sono con ogni probabilità dei limiti biologici sia alla possibilità di prolungare la vita umana sia alla capacità del cervello di immagazzinare e utilizzare informazioni; in secondo luogo, il riferimento alla natura umana sottolinea il carattere normativo di alcuni aspetti centrali del modo di essere dell’uomo che ne costituiscono la ragione di dignità. L’essere umano, dice una tradizione filosofica secolare, è un “animale razionale”: ciò significa che ha certe capacità intellettuali, ha una volontà che lo orienta ad agire in base alle sue credenze, è in grado di assumere liberamente delle decisioni, può riflettere su di sé e criticare il proprio stesso agire, è capace di dialogare con gli altri e anzi deve entrare in rapporto con altri uomini, sia per soddisfare i propri bisogni sia per realizzare il proprio desiderio di felicità.

“Natura umana” indica il modo di essere definito da queste caratteristiche, un modo che è proprio dell’essere umano e che contribuisce al valore della sua esistenza: un individuo più longevo o più sapiente ma che mancasse della libertà di scelta sarebbe forse incapace di sbagliare, ma privo di quel peculiare valore morale che indichiamo con l’espressione “dignità umana”; un individuo che fosse incapace di emozioni e sentimenti profondi potrebbe non essere esposto alle difficoltà e alle crisi che segnano la psicologia umana, ma non sarebbe in grado di fare esperienze fondamentali di amore e di amicizia che contraddistinguono l’essere umano e rendono la sua vita significativa e dotata di valore. In questo senso, benché l’intervento  manipolativo non sia “contro natura” nel senso che rispetta i vincoli posti dalle leggi di natura, potrebbe nondimeno non rispettare quelle condizioni “naturali” dell’essere al mondo dell’uomo che rendono la sua vita qualcosa di sensato e moralmente degno (Per il tentativo di difendere l’idea che anche la vita di un individuo postumano sarebbe dotata di dignità cfr Bostrom, «In difesa della dignità postumana», in Bioetica, 4, 2005, 33-46.).

 

  • Felicità

 

Un diverso tipo di obiezione al progetto transumanista riguarda la sopravvalutazione che esso opera delle dimensioni quantitative su quelle qualitative dell’esistenza umana.

Assumendo che il progetto di allungamento dell’attesa di vita riesca a garantire un numero significativo di anni in più rispetto alla condizione attuale, siamo certi che ciò contribuirebbe in maniera proporzionale all’aumento del benessere o della felicità umane? Assumendo che il potenziamento cognitivo estenda in misura consistente la quantità di informazioni che la mente umana può acquisire e manipolare, siamo certi che ciò ci renderebbe più profondi e intelligenti? Assumendo di poter meglio controllare le nostre emozioni e non cadere vittima di depressioni o altre alterazioni dell’umore, è sicuro che questo contribuirebbe alla nostra felicità psicologica (Kass L. R. «Ageless Bodies, Happy Souls: Biotechnology and the Pursuit of Perfection», in The New Atlantis, 1, (2003), 9-28, in www.thenewatlantis.com)?

Il progetto transumanista sembra accettare l’equazione tra aumento quantitativo delle capacità (o aumento del controllo individuale su di esse) e incremento del benessere o della felicità umana, un’equazione che pare decisamente problematica;

ciò non significa sostenere tesi discutibili sulla necessità o il valore della sofferenza nella vita umana, ma semplicemente ricordare che il valore e il senso di tale vita si misurano più in rapporto alla profondità delle esperienze di cui essa è piena che alla sua semplice durata o all’assenza di difficoltà e disagi. Spesso le conquiste migliori, quelle che maggiormente contribuiscono alla nostra felicità, sono quelle che passano attraverso la difficoltà, che mettono alla prova le nostre capacità e ci consentono di fortificarci superando le avversità; ciò vale sia nell’ambito intellettuale sia in quello emotivo o delle relazioni umane. Questo non significa negare qualsiasi significato al progetto di potenziare quantitativamente le nostre capacità, ma sicuramente problematizzare il valore incondizionato che il movimento transumanista sembra attribuirgli.

 

  • Equità

 

Un’ultima considerazione non irrilevante riguarda la questione dell’equità.

È vero che i transumanisti insistono sull’opportunità di garantire il più possibile un ampio accesso alle tecnologie di potenziamento che si renderanno disponibili; perciò non sembra appropriata la critica di chi riconosce in questo movimento un’indole elitaria.

Nondimeno, uno sguardo complessivo alle condizioni di salute e benessere della comunità umana consiglia di indirizzare altrove, in via prioritaria, le ingenti risorse che sarebbero necessarie a perseguire sistematicamente gli obiettivi del transumanesimo.

In effetti, se si considera che larga parte dell’umanità è attualmente priva dei mezzi fondamentali per condurre una vita sana e felice, a partire dalle risorse alimentari per arrivare a quelle dell’assistenza sanitaria di base, e presenta un’elevata mortalità per patologie che potrebbero facilmente essere debellate (come la tubercolosi o la malaria), il principio di giustizia impone che si contribuisca a sanare queste condizioni, prima di pensare di conferire benefici aggiuntivi alla parte dell’umanità che risulta già più avvantaggiata.

Anche ragionando in termini puramente quantitativi – ossia calcolando la quantità di benessere e/o felicità che è possibile produrre a parità di risorse erogate – è indubbio che un miglioramento significativo delle condizioni igieniche e sanitarie delle popolazioni del Terzo mondo produrrebbe una quantità di conseguenze positive incomparabilmente maggiore rispetto ai benefici che potrebbero essere garantiti alle popolazioni del Primo mondo, probabili beneficiarie di interventi come il potenziamento cognitivo o l’allungamento della vita. Inoltre, alcuni obiettivi transumanisti, come l’allungamento consistente della speranza di vita, metterebbero seriamente in difficoltà il rapporto tra le generazioni nell’accesso alle risorse, comportando una possibile penalizzazione delle generazioni più giovani e forse anche la necessità di limitare la libertà procreativa. In altri termini, sebbene alcuni interventi di miglioramento delle capacità auspicati dal transumanesimo possano sembrare in prima battuta del tutto sensati, la considerazione di varie questioni di giustizia ed equità distributiva sembra autorizzare più di un dubbio sulla loro effettiva desiderabilità nelle attuali condizioni dell’umanità. Proprio la rivendicazione di collocarsi nella scia della migliore tradizione dell’umanesimo sembra giustificare la conclusione che altri obiettivi umanitari debbano avere la precedenza su quelli transumanistici.

 

Parte teologica

La questione dell’immortalità fisica

Il movimento transumanista presenta diverse sfaccettature anche a riguardo del decisivo tema dell’immortalità.

Alcuni esponenti del movimento, come David Nicholas, pensano che l’obiettivo dell’immortalità deve caratterizzare il vero movimento transumanista. Secondo Nicholas il fatto che la morte continui ad esistere, rende futile il nostro parlare di libertà. “Senza la prospettiva di continuità, la nostra visione è tronca, il nostro pensiero è dominato da calcoli sul breve termine. Le nostre preoccupazioni per il futuro evaporano quando quel futuro non ha posto per noi. Eppure, per evitare il crollo psicologico, continuiamo a inventarci strategie di difesa”. Nicholas considera irrilevanti i vari tentativi elaborati dall’uomo per surrogare in qualche modo l’immortalità, compresa la proposta di Richard Dawkins che nel suo libro “Il Gene Egoista”, sostiene che l’unica funzione del corpo umano è quella di fare da veicolo per la sopravvivenza dei nostri geni. Seguendo il ragionamento di Dawkins fino alla sua logica conclusione, il corpo sarebbe energia pura e quindi indistruttibile: la morte può solamente cambiarne la forma! Ma ciò, secondo Nicholas, può solo offrire una scarna consolazione in quanto non affronta il problema del vero nemico: l’oblio personale di ciascuno.

A parere di Nicholas, solo gli esistenzialisti si avvicinano ad una corretta interpretazione del significato della morte. Quelli che si descrivono atei (comunemente e giustamente considerati come i più coerenti rappresentanti di questa corrente di pensiero) riconoscono il paradosso centrale della vita: cioè che la libertà implicita nella non-esistenza di Dio è resa insignificante dall’oblio in cui la vita finisce. Quindi Heidegger sostiene che per vivere veramente, dobbiamo continuamente affrontare a viso scoperto il limite imposto dalla morte ed accettare l’ansietà che esso comporta. Ma fin qui si tratta ancora e soltanto di interpretazioni, mentre l’obiettivo deve essere quello sconfiggere la morte: “Quello che vogliamo è nientemeno che l’immortalità fisica. Abbiamo il bisogno di sopravvivere mantenendo la nostra unità psicosomatica, mantenendo cioè intatte le nostre memorie, i nostri pensieri, le nostre speranze e i nostri desideri”.

Lo slogan con cui Nicholas saluta i suoi lettori è emblematico: “Possiamo costruire la nostra libertà dalla morte, ma non possiamo ottenerla con la preghiera … dopo aver inventato gli dei, è giunta l’ora di prendere il loro posto”.

Se questa è la posizione di Nicholas e degli “immortalisti”, più cauta è la posizione di altri autori. Ricordo i nomi di Max More, fondatore di Extropy e filosofo di riferimento per le tematiche in oggetto e di James Hughes, presidente di Humanity + (già World Transhumanist Association, cioè l’associazione mondiale del Transumanismo. Ecco come si esprime More nella sua breve relazione alla conferenza teologica di Pistoia del 2009 dove è stato invitato: “L’obiettivo transumanista dell’allungamento della vita è del tutto coerente con questa presa di posizione pro-vita. Devo dire, a questo punto, che io preferisco il termine “vita estesa” (o “vita di durata indeterminata” o “senza età”) al termine “immortalità fisica”, in quanto sono tutt’altro che sicuro che l’immortalità vera e propria – cioè una vita che duri, letteralmente, per sempre – sia possibile”. Nella stessa sede anche Hughes ha espresso la sua opinione che coincide con quella di More: “I transumanisti non sono realmente interessati alla “immortalità”, ma solo a ridurre le morti evitabili”.

Senza entrare in ulteriori dettagli, registriamo queste differenze e ci concentriamo però sulla pretesa di immortalità. Infatti solo questa pretesa costituisce una vera sfida per la riflessione teologica, mentre i miglioramenti della condizione umana, per quanto imponenti possano essere non cambiano la condizione di mortalità dell’uomo.

 

Fattibilità del progetto immortalista

Anche in questo caso, la prima domanda che viene spontanea è quella circa la fattibilità del progetto immortalista.

Allo stadio attuale delle conoscenze, si pensa che l’età massima raggiungibile dalla nostra ” materia” biologica sia di 120-130 anni. La superabilità di questo limite non è un fatto sicuro. Sul punto gli scienziati si dividono. Per alcuni è una possibilità reale, mentre per altri è soltanto un’ipotesi.

La questione è rilevante, dato che il tema prende interesse soltanto se possiamo uscire dall’ambito della fantascienza ed entriamo in quello dell’estensione di conoscenze già note. Sul punto bisogna osservare che occorre molta cautela nell’accogliere ipotesi non sostenute da basi scientifiche solide, ma ne occorre altrettanta nel respingere ipotesi che sembrano solo desideri o intuizioni. Questo secondo profilo della cautela è dovuto alla impressionante velocità con cui il futuro e le sue possibilità ci vengono incontro. Il futuro è difficilmente misurabile con parametri attuali, per cui anche le ipotesi che appaiono più fantascientifiche possono diventare realtà in tempi rapidi.

In ogni caso il terreno della discussione odierna e evidentemente segnato dal carattere ipotetico più che dal realismo, ma non sarebbe corretto solo per questo respingere a priori il confronto.

Attualmente le piste di ricerca che mirano a un prolungamento della vita umana sono quelle relative alla conoscenza del meccanismo dell’invecchiamento e al suo controllo, attraverso farmaci e terapie geniche. Questo primo filone ha già un certo bagaglio di conoscenze. Meno conosciuta e la seconda pista, quella delle nanotecnologie e la sua prospettiva di costruire nano robot perennemente in circolo nel nostro organismo, con il compito di monitorare e riparare i guasti del corpo umano e mantenerlo in una condizione di buona salute. La terza pista, decisamente più sconvolgente e quella che pensa a una digitalizzazione dell’io, in modo da poterlo trasferire da un corpo all’altro e renderlo così veramente immortale. In quest’ultimo caso, al momento, non ci sono neppure le conoscenze di base necessarie per avviare la ricerca. Si tratta proprio di una ipotesi, di una speranza di vittoria sulla morte. In questo caso, muta la condizione epistemologica della scienza, che non è più una via di conoscenza, ma viene caricata di un ruolo trascendente per rispondere alle attese sempre più ampie dell’immaginario collettivo.

Aldilà della realizzabilità completa di queste aspettative, resta positivo il fatto che si tenda a migliorare la condizione di salute dell’umanità. Con l’avvertenza che il miglioramento dovrebbe essere spalmato verso tutti gli uomini e non soltanto per i ricchi.

 

Ricerca di immortalità e teologia

Entriamo ora nella discussione sul significato della ricerca di immortalità per la teologia.

Come già accennato, la sfida più interessante per la teologia è quella di confrontarsi con la proposta di una vera immortalità e non con il progetto di un semplice prolungamento della vita.

Ovviamente il prolungamento della vita in buona salute viene considerato desiderabile dai più. In realtà esso porrebbe tutta una serie di problemi giuridici, politici, sociali, etici di difficile soluzione. Ma in questo caso resteremmo concettualmente all’interno della finitudine e della mortalità. Alcune associazioni transumaniste fanno riferimento al patriarca Matusalemme per indicare una durata amplissima ma finita della vita.

In secondo luogo, questa nuova vita senza limiti, deve avere una qualità desiderabile. Già oggi si pone il problema della vecchiaia e della qualità della vita in questo periodo dell’esistenza, al punto che alcuni pensano all’eutanasia, come soluzione auspicabile per quelle situazioni di insufficiente qualità della vita.

Quindi la vita cronologicamente indefinita dovrebbe essere accompagnata da una qualità di alto profilo, una sorta di eterna giovinezza, altrimenti si trasformerebbe in un incubo.

In terzo luogo, occorre pensare a un aspetto problematico di questa ipotesi di immortalità. L’eliminazione della morte per cause biologiche non eliminerebbe le altre cause di morte. Anche i più convinti sostenitori dell’immortalità non si azzardano a pensare all’associazione immortalità biologica e invulnerabilità. L’uomo singolo e il genere umano possono morire per incidenti, violenze, guerre, ecc. La stessa vita sulla Terra, il sistema solare e lo stesso universo hanno una durata amplissima, ma definita. Si tratta di tempi lunghissimi che non incidono sulla nostra psiche, pensiamo a cosa voglia dire l’espressione 15 miliardi di anni, riferita alla durata del nostro universo. Ma ai fini della speculazione filosofica un tempo lunghissimo ma definito è diverso da un tempo infinito. L’uomo rimarrebbe un essere mortale e, quindi, non verrebbe cambiata radicalmente la condizione umana.

La terza pista di ricerca è quella che tenta la via della vera immortalità. La via di realizzazione sarebbe appunto quella di una digitalizzazione della personalità, della quale fare una sorta di backup, da trasferire in un nuovo corpo totalmente artificiale. In questo caso, ammesso che la digitalizzazione dell’io riguardi solo la mente e non il corpo, si porrebbe la questione del mantenimento dell’unicità dell’identità individuale. Infatti il corpo umano non è solo un mero supporto della persona, come pensa erroneamente un filone della filosofia anglosassone risalente a Locke

 

La visione teologica

Preliminarmente occorrerebbe affrontare la questione del senso della vita. Questione che non può essere ridotta a una sorta di fissazione teologica, ma che è propria anche di tutta una lunga serie di riflessioni di autori atei. È sufficiente una sola citazione che riprendo da Nathan Coombs, giovane filosofo della prestigiosa Royal Holloway University of London. Egli afferma: “Thomas Kuhn ha sostenuto che ogni rivoluzione del pensiero umano comporta non solo il progresso, ma anche una perdita. E’ ciò che è avvenuto con l’ascesa dell’ateismo a partire dal 18° secolo, in coincidenza con una visione del mondo più empirista». Dal quel momento in poi, elementi accessibili alla sola logica induttiva sono stati sempre più abbandonati alla torre d’avorio composta da filosofi e teologi. Il risultato è che esiste una dimensione del mondo che il sistema scolastico laico ignora quasi del tutto: cioè, la metafisica. Contrariamente al folklore modernista, essa non è una qualche reliquia di pensiero pre-illuminista. Infatti la sua rilevanza persiste in due modi: 1) Il primo riguarda la nostra comprensione del mondo attraverso modalità che sfuggono al metodo empirico. Ad esempio l’idea degli eventi: i fenomeni senza alcuna verificabile proprietà, ma che appaiono indispensabili per dare un senso a questioni relative alla causalità e alla trasformazione. 2) Secondo e più importante, ci sono i grandi “Perché?”. Domande che svolgono un ruolo irriducibile nel pensiero esistenziale sulla vita: “Perché esiste qualcosa piuttosto che il niente?”
Queste domande che gli atei trascurano giocano un ruolo importante nella vita di tutti. Troppo spesso atei ideologizzati rifiutano di affrontare questi temi durante i dibattiti con i religiosi, facendo credere che la propria mancanza di riflessione su tali questioni sia in realtà un marchio di garanzia di maturità e di laicità. In realtà non è possibile escludere queste domande dalla vita, ed è per questo che l’ateismo moderno si è buttato disperatamente nelle braccia del dio scienza (scientismo), chiedendo illusoriamente ad esso di dare un significato alla propria vita.

Se la domanda di senso si pone per una vita limitata, a maggior ragione si deve porre, per una vita senza limiti. Sarebbe veramente contraddittorio, che una vita priva di senso e frutto della casualità, come afferma J. Monod nel suo celebre testo “Il Caso e la necessità” e molti altri scientisti con lui, diventasse desiderabile, al punto da renderla immortale. Dal caso emergerebbe la norma. Sembra una insuperabile contraddizione. Si apre sul punto una questione che non può restare senza dibattito.

 

Il progetto di Dio

Il filo rosso del concetto di Alleanza percorre tutta la Bibbia e ne costituisce la spina dorsale. Ora questo progetto divino ha come suo obiettivo la ricreazione dell’uomo per la sua elevazione al rango di figlio di Dio. Il Nuovo Testamento esprime in molti modi il progetto divino, ma il termine che illumina maggiormente la questione dell’immortalità è certamente “vita eterna”, che consiste nel conoscere e nell’essere con Dio: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Ogni essere umano vuole vivere. Desidera una vita vera, piena, una vita che valga la pena, che sia una gioia. Con l’anelito alla vita è, al contempo, collegata la resistenza contro la morte, che tuttavia è ineluttabile. Quando Gesù parla della vita eterna, Egli intende la vita autentica, vera, che merita di essere vissuta. Non intende semplicemente la vita che viene dopo la morte.

In questo senso è emblematica la risurrezione di Lazzaro (Gv 11,1-44), il quale risuscitato ritorna alla vita comune per essere sottoposto nuovamente alla morte terrena. Mentre sono le sorelle Marta e Maria che, provocate dalla domanda di Gesù, esprimono la fede in Gesù, condizione per vedere la gloria di Dio (v. 40).

L’immortalità in senso cristiano non è caratteristica puramente temporale, di prolungamento indefinito dell’esistenza, ma ingresso in una nuova dimensione, dove decisiva è la comunione con Dio, dal quale si riceve una pienezza di vita che non possiamo descrivere, se non con l’anticipazione che ci viene dall’inaudito amore di Gesù per ognuno di noi.

Alla luce di queste considerazioni, l’uomo in condizioni di immortalità conquistata con i mezzi tecnologici, non sarebbe esonerato dalla decisione per Dio. Anche questo ipotetico uomo immortale dovrebbe decidere se accontentarsi della vita immortale che si è costruito con le sue proprie mani o accogliere il dono che gli viene offerto dal Figlio di Dio nella Chiesa. L’accettazione di Dio eleverebbe quest’uomo dalla sua immortalità alla vita eterna e alla pienezza della gioia di Dio.

Perciò la teologia pone la questione ineludibile dell’esercizio della libertà. Senza decisione per Dio non c’è fede cristiana né vita eterna, al più ci può essere un complesso di dottrine e di riti.

 

La questione della libertà in rapporto all’immortalità

L’immortalità è un beneficio essenziale per la libertà umana, come afferma David Nicholas?

La condizione morale dell’uomo contemporaneo ci istruisce sul fatto che la rivendicazione perfino ossessiva della libertà del soggetto rischia di tramutarsi in perdita della libertà.

Innanzitutto, va sgomberato il campo dall’idea che Dio possa essere nemico della libertà umana. In realtà a partire dalla liberazione del popolo di Israele dalla schiavitù d’Egitto, Dio ha sempre svolto il ruolo di liberatore dell’uomo. In Gesù Cristo si raggiunge l’apice di questa liberazione, egli è il fondatore della libertà dell’uomo, perché consente all’uomo di compiere la decisione più alta, quella nei confronti di Dio stesso: “volete andarvene anche voi” (Gv 6,67)?

Ora l’uomo contemporaneo è entrato in una situazione paradossale: rivendica la libertà, ma teme di usarla.

Teme di usarla perché la libertà comporta un rischio inevitabile: decidere per una buona causa ed esserle fedeli con coerenza, dando a se stessi una identità. Ma chi fornisce garanzie che questa buona causa sia quella giusta, vera, pienamente umanizzante?  Ecco che è necessario compiere una decisione che non potrà essere basata su garanzie scientifiche o, detto altrimenti, su evidenze incontrovertibili. La decisione sarà basata soltanto sul fascino della causa. È la fede. Occorre decidere per usare la libertà, ma per decidere occorre affidarsi a una buona causa.

In questo modo si rischia, ma a fronte del rischio si assume una identità: divento cristiano, divento filantropo, divento lottatore per la giustizia, ecc.

Senza decisione non si dà a se stessi identità definita, e si assume di volta in volta l’identità che la convenienza del momento suggerisce. Si sviluppa un modo di vivere secondo una logica per cui si sottopone tutti e tutto a esperimento, a prova, per vedere che cosa conviene fare, senza che il soggetto abbia una sua progettualità morale. In tal modo la libertà non è usata per scegliere un progetto, ma solo per vedere il da farsi giorno per giorno. Questo genere di libertà dà origine a un “uomo senza qualità”. Potrebbe succedere la stessa cosa all’uomo immortale? Una vita indefinitamente lunga e senza qualità morale. Anche questa diventa una questione aperta.

 

Normatività della morte di Cristo

In questa linea di pensiero non possiamo tralasciare il contributo di K. Rahner sulla morte come compimento della libertà. Abbiamo detto che l’uomo deve esercitare la sua libertà per compiere se stesso, pena la mancanza di una identità autonoma. Nella logica cristiana l’uomo deve pronunciarsi con la sua libertà e con la sua fede addirittura nei confronti di Dio. Gesù stesso ha dato compimento alla sua libertà, al suo amore, alla sua fiducia nel Padre proprio nel momento supremo della morte in croce: “Padre nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46).

Rahner, rileggendo la morte nella sua realtà dialettica e nella sua natura “velata”, pone radicalmente in discussione la definizione usuale della morte come “separazione dell’anima dal corpo” e, per superarne l’inaccettabile dualismo, propone la tesi della “pancosmicità dell’anima”. Originali sono le sue considerazioni sull’aspetto personale della morte come fine dello “status viatoris”, come unità dialettica di azione e passione, come realtà che pone in relazione tempo ed eternità. Per finire con riflessioni di sorprendente finezza sul rapporto tra morte e peccato e sulla possibilità del “con-morire” con Cristo.

È proprio il con morire con Cristo che è ricco di conseguenze per il morire umano. Infatti la vicenda personale di Gesù Cristo ci istruisce su ciò che la morte chiederà ad ogni uomo: 1) di avere consolidato la propria identità al punto da saperne abitare il nome senza ricorre ad altri riferimenti; 2) di avere imparato il distacco da tutte le cose; 3) di avere interiorizzato così intensamente gli altri uomini da sapere partire senza paura della solitudine; 4) di aver imparato ad amare in modo così oblativo, da sapere donare se stessi senza rimpianti; 5) di avere imparato a fidarsi così della vita da saperla perdere per ritrovarla. La morte di Gesù è compimento pieno dell’umanità del Figlio e via per ogni uomo.

Perciò se il Verbo incarnato ha dovuto affrontare la morte, vincendola con il suo atto di amore totale che è insieme atto di totale affidamento al Padre, anche per l’umanità e per ogni uomo l’accesso alla vita eterna non può che essere costituito dal nostro “con morire” con Cristo (Cfr. Rom 6).  

 

Alcune considerazioni finali

Una discussione esauriente dovrebbe naturalmente prendere in considerazione anche altri aspetti, in particolare i mezzi proposti per realizzare questi obiettivi. Alcuni di essi, infatti, presuppongono la manipolazione genetica di embrioni umani, o comunque la distruzione di embrioni allo scopo di trarne cellule staminali da utilizzare per scopi di medicina rigenerativa. Una simile procedura è altamente discutibile dal punto di vista etico, in quanto tratta degli individui umani in via di formazione come mezzi in vista di un maggior beneficio per altri individui adulti. Se però ci fermiamo ai soli fini che si propone il transumanesimo, dobbiamo dire che essi non appaiono necessariamente inaccettabili, soprattutto se assunti in quella forma moderata che pare la più plausibile dal punto di vista pratico; invece ciò che risulta discutibile è l’ideologia scientista in base alla quale la scienza e la tecnologia sembrano costituire le uniche forme di sapere in grado di dire una parola significativa sulla vita umana, sul suo senso e sulla sua possibile felicità. Una considerazione più ampia conduce invece a tenere conto dei pericoli che il potenziamento tecnologico presenta, sia quanto alle caratteristiche “naturali” della condizione umana, sia quanto alla possibilità di compromettere alcune delle sorgenti più profonde della felicità umana, sia infine quanto alla probabilità di violare requisiti fondamentali di giustizia.

Aldilà della simpatia e delle speranze che alcune proposte del movimento transumanista possono suscitare, rimane particolarmente problematica sotto il profilo teologico la prospettiva dell’immortalità terrena.

Il confronto del pensiero cristiano anche con la sola ipotesi immortalista apre una serie di questioni che riguardano il senso della vita, l’identità morale della persona umana e l’esercizio della libertà. Infine si pone la questione della normatività della morte di Cristo. Forse è quest’ultimo aspetto della teologia e dell’antropologia cristiana a porre la critica più penetrante alla pretesa di immortalità terrena.