FILIPPO M.BOSCIA* –
 Non passa giorno che i programmi televisivi ci presentino testimonianze di figli che a causa del coronavirus hanno perso genitori anziani ospitati in case di riposo. Quello che raccontano è quasi una litania, sempre la stessa e sempre uguale. Lamentano che, con la diffusione dell’infezione e l’alto numero di casi registrati nelle cosiddette RSA (residenze sanitarie assistite), è stato loro precluso di poter far visita ai propri parenti, che hanno potuto sì e no salutare attraverso vetrate rigorosamente chiuse. Una precauzione quasi sempre piuttosto tardiva, che purtroppo non ha impedito a molti di quegli ospiti di contrarre l’infezione e di soccombere in tempi molto brevi.

Anche la notizia del decesso non è stata loro comunicata subito, così da non poter dare a quei poveretti l’estremo saluto, sebbene, com’è noto, per le disposizioni governative e il blocco totale delle attività (il lockdown) i defunti sono stati in gran fretta chiusi in bare tutte uguali, dopo una frettolosa benedizione, e trasportati in cimiteri anche lontani per l’alto numero di decessi contemporanei. Una delle immagini più tragiche che rimarrà sempre nella nostra mente è quella lunga fila di camion militari pieni di feretri che uscivano lentamente dalla “zona rossa”, quella di maggior contagio e con un più grande numero di vittime.

Una risposta esaustiva del motivo per cui le RSA diventino con grande facilità focolai di infezione non è arrivata, malgrado varie inchieste giornalistiche e giudiziarie. Né si sa come il virus sia arrivato dentro queste che dovrebbero essere delle strutture protette, anche dal punto di vista infettivologico. Responsabili, sebbene ignari, gli addetti all’assistenza? o i parenti visitatori? Certo già la concentrazione di molte persone in spazi ristretti è di per sé un fattore di criticità vista la modalità di diffusione del virus, ma, come spesso avviene, i controlli hanno evidenziato, in molte occasioni diverse, infrazioni piuttosto gravi che riguardano le più elementari norme igieniche.

Purtroppo gli anziani, sempre in maggior numero nel nostro Paese che ormai da anni si barcamena tra una natalità in caduta libera e una mortalità ridotta grazie ad una più lunga durata della vita, costituiscono per la vecchiaia in sé stessa una categoria di fragilità estrema. Essa è ancor più aggravata da tutte quelle patologie, alcune delle quali invalidanti, che quasi inevitabilmente affliggono l’ultima parte della vita. Una tale situazione è difficilmente gestibile dai figli, i quali, al di là dell’affetto che li lega ai genitori, oggi più che mai si trovano in molti casi a combattere per la sopravvivenza. Pertanto la “soluzione ospizio” è il risultato di due interessi inconfessabili: dei gestori che vogliono lucrare sul bisogno e dei parenti che intendono affrancarsi da un peso.

Una gestione diciamo così “disinvolta” delle case di riposo significa anche scarsa qualità dei servizi che vengono forniti. In riferimento al personale ciò vuol dire mancato rispetto delle procedure igienico-sanitarie e quel che è più grave poca vigilanza della dirigenza sui comportamenti degli addetti verso gli assistiti. Non di rado infatti le cronache riferiscono di maltrattamenti che possono arrivare sino alle percosse, quindi veri e propri atti di violenza gratuita verso chi per la sua debolezza non è in grado di difendersi. Eppure, malgrado le colpe, quando provate e confermate, vengano adeguatamente punite, questi disgustosi episodi tendono a ripetersi, sia pure non nello stesso posto ma in altri luoghi. “Oggi è diventato urgente, oltre ad un solido bagaglio di competenze professionali, ripensare la differenza sul significato del curare (in senso tecnico) e dell’aver cura, poiché nelle istituzioni e nei servizi il curare (to cure) in senso medico, ma anche in senso educativo e sociale perde di vista l’aver cura la sollecitudine autentica, quel “prendersi cura” (to care) che si fonda sulla relazione. La cura può avvenire anche in assenza di un “aver cura” della persona, ossia nel disinteresse e nell’indifferenza. Curare senza aver cura è il paradosso che rende anonime le strutture dei servizi, e può persino farle diventare disumane come nei casi che arrivano alle cronache. Le relazioni finiscono relegate ad un’importanza residuale laddove le strutture sono improntate a regole imposte/subite, anche se incomprensibili o addirittura talvolta disfunzionali.

Quando la routine disperde l’attenzione verso l’altro-persona nei gesti anonimi e nei comportamenti standardizzati rivolti all’altro-utente, si opacizza l’aver cura rivolto agli altri esseri umani. La cura dell’altro ha bisogno quindi di competenze professionali solide, ma anche di un atteggiamento moralmente responsabile verso il diritto alla cura. Il lavoro di cura richiede sì preparazione tecnica, ma ha bisogno anche di includere altre competenze: ascolto, parole e sguardi.

Il sapere tecnico sarà arricchito da quei gesti della vita emotiva che consentono di mantenere nel tempo lo sguardo iniziale, indispensabile per continuare a coltivare la motivazione, l’acquisizione di professionalità che coincidano con l’autenticità di un incontro personale. Per questo, Vanna Iori, docente universitaria presso l’Università di Bologna, ribadisce quanto sia importante “rinnovare il senso di ciò che si fa”. Nel periodo più nero della pandemia rivelazioni anonime del personale hanno messo in luce che ordini sbagliati, come il non indossare la mascherina facciale per non spaventare i ricoverati, possono aver favorito la diffusione del virus. Che ancor oggi, a più di sei mesi dall’inizio, trova ancora terreno fertile nelle RSA, dove si sviluppano focolai con più contagiati. Anche per questi motivi si assiste ad un progressivo abbandono delle strutture da parte di chi ci lavora, ampliando ancor di più un altro problema, quello della carenza del personale rispetto al numero dei degenti. Se si aggiunge la sospensione di giudizio sul rinnovo delle convenzioni con il Servizio Sanitario Nazionale, ci si accorge di quanto l’attuale situazione sia ingarbugliata.

Di fronte a questa, come ad altre crisi dell’assistenza, da tempo si sono andate organizzando associazioni, gruppi e movimenti di volontariato per garantire conforto e sostegno a chi ne ha necessità, soprattutto di fronte all’evidenza, che alcune strutture, rispetto a questo profilo, lasciano molto a desiderare.

Molta attenzione viene riposta ai giovani che negli ultimi anni sono stati protagonisti di interessanti esperienze formative e di progetti di alternanza scuola-lavoro. Possiamo citare, tra questi, il lodevole impegno degli studenti del Liceo Scientifico “Albert Einstein” di Cerignola (FG) che, sollecitati dalla dirigente scolastica Prof.ssa Loredana Tarantino e guidati dalla Prof.ssa Italia Buttiglione, hanno frequentato regolarmente Residenze Sanitarie Assistite (RSA), reparti di strutture ospedalieree residenze domiciliari, riuscendo a donare con profondi sentimenti di “care” tanto amore ad inespresse solitudini. Così si è creato una sorta di patto generazionale, diventato patto professionale e di azione che ha trovato sostanza nella reciproca convenienza dei visitati e dei visitandi.

Una dinamica diventata davvero importante patrimonio intergenerazionale di dono, sicuramente foriero di futuri sapienti circuiti, una sorta di cerchio magico, che partendo da contributi di formazione anche morali si apre in modo generoso per opere di sostegno e di prossimità a “comunità di anziani soli”.

In questa attuale grave emergenza pandemica, qualcosa di positivo si è mosso per intervenire su queste solitudini. Proprio in considerazione del fatto che gli anziani costituiscono una delle categorie maggiormente esposte al contagio del coronavirus e quindi più bisognevoli di particolare attenzionedi recente è stato messo a punto, congiuntamente dal Dipartimento per le politiche giovanili e il Servizio civile universale e dal Dipartimento per le politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei Ministri, il bando per il progetto “Time to care”, lanciato il 31 luglio 2020 e scaduto il 31 ottobre.

Questa iniziativa rappresenta una importante novità: rivolto ai giovani tra i diciotto e i … trentacinque anni (questi ultimi giovani non più giovani) li sollecita ad impegnarsi, per un periodo di sei mesi, in attività di supporto e assistenza agli anziani, nell’ambito di azioni progettuali proposte dagli Enti del Terzo settore, su tutto il territorio nazionale. 
Dal bando leggo: Il Bando ha l’obiettivo di individuare circa 1.200 giovani da utilizzare in attività di supporto e assistenza agli anziani. Il Bando ha la finalità di promuovere azioni di sistema sui territori che, attraverso il lavoro delle reti associative (di cui all’art. 41 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 e s.m.i. – Codice del Terzosettore), favoriscano lo scambio intergenerazionale con le seguenti attività: 
• assistenza a domicilio e/o a distanza dei giovani nei confronti degli anziani (che rappresentano una risorsa culturale per il territorio e la categoria più fragile e considerata più esposta al contagio del Coronavirus COVID-19);

• attività di “welfare leggero” (quali disbrigo di piccole faccende per persone anziane o bisognose: consegna di spesa, acquisto farmaci, contatti con i medici di base, pagamento bollette, consegne a domicilio di diversi beni, libri, giornali, pasti preparati o altri beni di necessità, ecc.);
• assistenza da remoto, anche mediante contatti telefonici dedicati all’ascolto e al conforto di chi è solo, o servizi informativi per gli anziani.

Come può notarsi, è prevista “l’assistenza da remoto, anche online”. Senza dubbio i progressi continui dell’elettronica e dell’informatica consentono oggi di controllare, gestire e assistere a distanza.Sono tante le aziende leader che lavorano in tali settori produttivi, famose e accreditate, in grado di mettere a disposizione videocamere, apparecchiature telefoniche e altri dispositivi che definiamo “assistenti virtuali”, in grado di operare per il monitoraggio dei parametri vitali, come funzione cardiaca e pressione o anche ad esempio della glicemia, attraverso particolari patches e alert orari, con possibilità di crono programmazione delle terapie e dispensazione automatica di pillole direttamente agli interessati, atteso che i geolocalizzatori GPS consentono di conoscere la posizione del soggetto con una precisone inferiore al metro. E tra non molto tempo avremo anche i robot infermieri…, già in uso presso l’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza in San Giovanni Rotondo.

Molti esultano! Tanti altri sono perplessi!! In realtà non possiamo nascondere che, quanto più il rapporto diviene virtuale, tanto più viene a mancare l’aspetto interpersonale, manca quell’ascolto empatico, che moltissime volte è più efficace di un farmaco.

Manca la relazione, manca l’entrare in sintonia con l’altro, manca “la cura dell’aver cura”, che non bada solo al corpo ma tende all’anima, creando inaspettate sintonie e privilegiando meravigliosi ascolti ed efficaci relazioni.

L’assistenza distanziata da remoto non è la stessa cosa di un rapporto di prossimità. Questi sistemi telematici possono essere utili, ma mancano della circolarità del rapporto umano, che rappresenta un patrimonio da non disperdere.

Un contatto non fisico, con tutte le prerogative della comunicazione verbale ed extraverbale (quella fatta di espressioni, sguardi, gesti) ma remoto, attraverso un freddo cavo telefonico, è quanto di più disumanizzante vi possa essere. Con tutte le difficoltà che l’anziano può avere, non solo per malattie bensì per l’invecchiamento fisiologico. L’essere in presenza invece serve a dar fiducia, attiva motivazioni, forze e, in ultima analisi, migliora la qualità di vita.

Siamo davvero sicuri che una specie di “telefono amico” possa davvero servire a mitigare la solitudine, il “male non male” più fastidioso e più difficile da curare, che ha avuto una drastica recrudescenza con il distanziamento sociale e l’isolamento “in quarantena”?

Pensiamo per un attimo a quanto possa essere deprimente per un anziano il non poter abbracciare un nipote o temere di andare a fare la spesa, o l’essere incapace di affrontare o sfidare il destino in una tragica partita tra la vita e la morte!

La solitudine genera ansia e accelera la demenza, ma provoca anche depressione e problemi di salute fisica, con un impatto negativo sul sistema immunitario, che rende i più fragili ancora più vulnerabili alle infezioni, compresa quella tragica con cui stiamo convivendo da dieci mesi, e che ha già dimostrato di contribuire ad accorciare la vita.

Ben vengano allora tutte le iniziative, come quella governativa, che coinvolgendo i giovani promuove “l’obiettivo di migliori scambi tra generazioni, favorisce l’inclusione delle persone anziane nella vita sociale” e richiama alla memoria collettiva il grande valore storico e culturale degli anziani, che tra l’altro sono portatori di grandi risorse in questi anni difficili sia per l’organizzazione che per il sostegno economico delle famiglie.

Il contatto diretto, il rapporto faccia a faccia nella relazione di aiuto agli anziani, se privilegiato, rappresenta miglior antidoto contro la disaffezione, l’incomunicabilità e l’oblio.

E nell’incontro con l’altro teniamo sempre a mente quanto consigliato da Enzo Bianchi, della Comunità di Bose, al manifestarsi della pandemia: “Cerchiamo di avere sguardi di tenerezza, di scambiare parole che aiutino la convivenza, di amarci come viandanti che sanno che il viaggio finisce. Perché ciò che davvero conta è come si è percorso insieme il viaggio della vita”.

*Presidente Nazionale dell’Associazione Medici Cattolici Italiani

Foto: ANGELA LAZAZZERA, dalla serie “MEMORIA’ tecnica mista su tavola cm. 30×40, 2018

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