SAINT LUKE

Pro-Life Physician and Evangelist—

Feast day: 18 October

By Dr Richard A. Watson

Saint Luke, the Evangelist, was a Greek doctor; he was called “Our Beloved Luke, the Physician” by the peripatetic Saint Paul of Tarsus (Col. 4:14). Evidence of Saint Luke’s medical background is peppered throughout his gospel. For example, when the other two synoptic evangelists recorded Christ’s warning that a rich man will have no more ease passing through the gates of heaven than would a camel passing through the eye of a needle, they use the household term for a woman’s sewing needle. Saint Luke, on the other hand, uses the Greek word for a surgeon’s suturing needle. At another point, in telling the story of the woman who suffered from hemorrhage, Saint Luke – keenly aware of the mercenary pitfalls of our profession — adds the sardonic observation that the woman had already spent all of her money seeking the advice of many physicians, and yet had been helped by not a one of them (Luke 8:43-48 vs Matthew 9:20-22) Luke alone of the evangelists recounts Christ’s stunning allegory of compassion and selflessness in the context of providing healing care for the helpless, the injured and afflicted — the Parable of the Good Samaritan (Luke 10:29-37)

An inherently pro-life physician, Luke uses the same Greek word for “baby”, whether writing about a baby in the womb or about a babe in the manger. And it is he who recounts how Saint John the Baptist, while still in the womb of Saint Elizabeth, leapt for joy at the approach of Jesus, unborn but very much alive, within the womb of his Virgin Mother (Luke 1:39-45). Finally, it is within the Gospel of Saint Luke, that Jesus makes his only reference to us practitioners of medicine: “Physician, heal thyself!” (Luke 4:23).

+ Prayer to Saint Luke +

Most charming and saintly Physician, you were animated by the heavenly Spirit of love. In faithfully detailing the humanity of Jesus, you also showed his divinity and his genuine compassion for all human beings. Inspire our physicians with your professionalism and with the divine compassion for their patients. Enable them to cure the ills of both body and spirit that afflict so many in our day. Amen.

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Proibito proibire

Lettera a San Luca

Caro san Luca,

Mi siete sempre piaciuto, perché uomo tutto dolcezza e conciliazione.

Nel vostro Vangelo avete sottolineato che il Cristo è infinitamente buono; che i peccatori sono oggetto di un amore particolare da parte di Dio, che Gesù quasi ostentatamente ha tenuto rapporti con coloro che non godevano al mondo di considerazione alcuna.

Voi solo ci avete dato il racconto della nascita e dell’infanzia di Cristo, che a Natale sentiamo sempre leggere con rinnovata commozione. Una piccola vostra frase soprattutto trattiene la mia attenzione: “Avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia”. E’ Ia frase che ha dato origine a tutti i presepi del mondo e a migliaia di stupendi quadri. Alla frase ho accostato una strofa del Breviario:

“Ha accettato di giacere sul fieno

non ha avuto paura della greppia

con poco latte s’è nutrito

Lui, che sfama fin l’ultimo degli uccellini”.

Fatto questo, mi sono chiesto: “Cristo ha preso quel posto umilissimo. Noi, che posto prendiamo?”. Lasciatemi adesso dire le risposte che ho trovato per questa domanda.

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Davanti a Dio, il nostro posto è quello d’Abramo, che diceva: “Oserò io parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere?”. Oppure quello del pubblicano, che, sulla soglia del tempio, lontano dall’altare neppure osava alzare gli occhi al cielo, pensando ai tanti peccati commessi.

Davanti a un Dio infinito e onnipotente dobbiamo accettare di essere piccolissimi, reprimendo in noi ogni tendenza contraria alla giusta sottomissione. Succede, infatti, che Dio vuole essere imitato da noi in alcune cose, mentre in altre vuol essere unico, inimitabile. Dice: “Imparate da me a essere miti e umili”; “siate misericordiosi com’è misericordioso il Padre mio”. Ma dice anche: “Solo a Dio l’onore e la gloria”; “solo Dio è l’Assoluto e l’Indipendente”.

Noi tentiamo di rovesciare le posizioni: vorremmo noi autonomia, indipendenza, onori e non abbiamo voglia di essere dipendenti, miti e pazienti. Ci facciamo forti, all’uopo, delle “filosofie nuove” (che fra breve saranno vecchie) e della Kultura col K maiuscolo. Il progresso poi ci ha dato alla testa: siamo molto consci di essere andati fin sulla Luna, di avere messo in piedi la civiltà di tutti i consumi e di tutte le comodità.

Stavamo, però, dimenticandoci di Colui dal quale proveniva ogni dono di ingegno e di energia, quando dagli sceicchi orientali c’è venuto il duro e brusco richiamo: “Voi del consumismo e dell’opulenza – ci hanno detto -, è finita la cuccagna; petrolio ce n’è ormai solo per una trentina d’anni; chi lo vuole, lo paghi salato; ridimensionatevi; andate in cerca di altre fonti di energia”.

Il richiamo e i duri momenti che ci aspettano, possono essere utili: da un lato stimolano a nuove ricerche ed a nuove vie di progresso; dall’altro ricordano i limiti di ogni cosa terrena e il dovere di mettere solo in alto le nostre supreme speranze.

Ho sentito dire da un “cristiano critico”: “Basta con la religione piccolo-borghese, che parla di paradiso e di singole anime salvate. Tutto ciò odora di individualismo capitalista e svia l’attenzione dei poveri dai grandi problemi sociali. Di popolo, di massa, di salvezza comune deve parlare chi predica il Vangelo. Cristo, infatti, è venuto a liberare il popolo dall’esilio della civiltà capitalista per guidarlo alla patria della nuova società, che sta per spuntare”.

Di vero, in queste parole, c’è solo che il cristiano deve occuparsi, ed efficacemente, dei grandi problemi sociali. Quanto più, infatti, uno è appassionato del “cielo”, tanto più deve dare una mano a piantare la giustizia sulla terra. Quanto al resto, capitalista o socialista, la civiltà è per ciascuno di noi solo temporanea; ci viviamo solo di passaggio.

La vera nostra patria, cui, condotti da Cristo, ci avviamo – insieme, ma ciascuno con destino proprio – è il Paradiso. Chi non crede al Paradiso è sfortunato: è “senza speranza”, direbbe San Paolo, e non ha ancora trovato il senso profondo della propria esistenza.

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Davanti al prossimo, il nostro posto è triplice, secondo che si tratta di superiori, di eguali o di inferiori.

Ma si può parlare di superiori in questi anni? Si può ancora dire: i figli devono amare, rispettare e ubbidire i loro genitori, i discepoli i loro insegnanti, i cittadini le autorità costituite?

Nel Seicento qui, a Venezia, c’era il famoso Carnevale: in quei giorni la gente sembrava impazzire, faceva un po’ quello che voleva e si sfogava, andando – con la complicità della maschera – contro costumi e leggi quasi per rifarsi dei mesi vissuti in obbedienza e morigeratezza. Ho l’impressione che stia succedendo qualcosa di simile.

A me non fa tanto paura il sentire che ci sono in giro per il mondo attentati, furti, rapine, sequestri e omicidi. Essi sono sempre esistiti. Fa paura il modo nuovo, con cui molta gente guarda a questi fenomeni. La legge, la norma è considerata una cosa da mettersi in burla o come repressione e alienazione. Si prova un gusto matto a dir male di qualunque legge. L’unica cosa oggi proibita – si dice – è il proibire, e uno che tenti di proibire fa figura di appartenere alla vecchia e sorpassata “società oppressiva”. Qualche magistrato nel sentenziare dà l’impressione di aprire arbitrari “pertugi” nella siepe del Codice; molto spesso nella stampa vengono irrise le forze, che hanno il compito di far rispettare l’ordine pubblico.

Nello stesso ambiente clericale, nel “buttar giù”, una dopo l’altra, leggi ecclesiastiche, si applica in modo allegro ed inatteso il quantum potes tantum audedel “Lauda Sion”! Si moltiplicano inchieste più o meno scientifiche, che sembrano concludersi quasi tutte con questa antifona: “Cara gente, tu sei infelice nella situazione attuale; se vuoi essere felice, devi cambiare tutto e rovesciare le strutture”.

Ci si mette anche la psicologia, scienza che spiega i fatti umani. Ebbene? Gli adùlteri, i sadici, gli omosessuali dagli “psicologi del profondo” sono praticamente quasi sempre scusati: la colpa è dei genitori, che non hanno amato come dovevano i loro teneri e angelici rampolli. Tutta una letteratura pare aver per parola d’ordine: “dàgli al padre!” e rende il padre responsabile quasi di tutto.

Un’altra letteratura, propagandando una liberalizzazione completa da ogni legge, chiede contraccezione senza freni, aborto a piacimento della madre, divorzio a volontà, relazioni prematrimoniali, omosessualità, uso di stupefacenti.

E’ una mareggiata, una specie di ciclone, che s’avanza, caro San Luca; di fronte ad essi cosa può fare un povero vescovo? Può concedere che in passato la legge è stata spesso un assoluto, una specie di altare sul quale veniva un po’ troppo sacrificata la persona. Prende atto che a volte sono i genitori stessi ad allentare ogni briglia sul collo dei figli “non voglio che mio figlio conosca il rigore che hanno fatto subire a me!”. Ammette che gli stessi genitori hanno talora dimenticato il monito di “non essere troppo esigenti coi propri figli” (Col. 3, 21). Sa benissimo che l’esercizio di ogni autorità è un servizio e va eseguito in stile di servizio. Ha presenti le parole di San Pietro: Agite “da veri uomini liberi, che non si servono della libertà come velo della malizia, ma sono servitori di Dio” (1 Pt. 2, 16). Queste parole escludono il cosiddetto “potere” e reclamano un’autorità promotrice di libertà; non vogliono un’obbedienza servile. bensì un’obbedienza adulta, attiva e responsabile.

Ma dopo? Dopo deve confidare in Dio, richiamando con fermezza la parola divina: “Chi teme Dio onora il padre… Figlio mio, con parole con fatti onora tuo padre” (Sir. 3, 7. 8). “Figli, obbedite ai vostri genitori in tutto ciò ch’è gradito al Signore” (Col. 3,20). “Ognuno stia soggetto alle autorità in funzione, perché non v’è autorità se non da Dio… sicché, chi si ribella all’autorità, si ribella all’ordinamento divino” (Rom. 13, 1-2). “Raccomando che si facciano suppliche, preghiere… per tutti gli uomini, per i re e per coloro che sono costituiti in autorità” (I Tim. 2, 1). “Siate obbedienti e cedevoli ai vostri superiori, affinché, dovendo essi, come responsabili, vegliare sopra le vostre anime, lo facciano con gioia e non gemendo” (Ebrei 13, 17).

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Ci sono poi i nostri eguali. Di fronte ad essi il dovere è: essere semplici, evitare la singolarità, la smania esagerata di distinguersi. La tendenza, a volte, sarebbe non di fare quello che fanno gli altri, ma di fare quello che gli altri non fanno; di contraddire alle loro affermazioni; di sdegnare ciò ch’essi ammirano; d’ammirare ciò che essi sdegnano.

Qualcuno vuole segnalarsi per l’eleganza, il lusso, i colori vivaci, la sfarzosità dei vestiti, qualche altro per il linguaggio originale e ricercato. Un anello in dito, un ricciolo che spunta di sotto il cappellino, una penna sul cappello d’alpino rende qualcuno fiero in maniera incredibile. Cose in sé non gravi – intendiamoci -, ma spesso diventano mezzucci per mettersi in mostra, far meravigliare gli altri e nascondere la propria mediocrità.

L’uomo semplice e schietto, invece, non cerca di apparire più ricco, più colto, più pio, più nobile, più potente di quello che è. Essere ciò che deve, parere ciò che è, vestire secondo la propria condizione, non mettersi volutamente in mostra, non offuscare nessuno, ecco i suoi propositi. Gesù li ha approvati e raccomandati in anticipo e Voi, caro San Luca, ce li avete conservati: “Sedete all’ultimo posto”; “guai a voi, che cercate i primi seggi nelle sinagoghe e i salamelecchi nelle piazze”.

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Ci sono infine gli inferiori, o meglio, quelli che sono più sfortunati di noi, perché malati o poveri o tribolati o peccatori. Verso di essi c’è il dovere dell’efficace amore cristiano, che deve portarsi su ciascuno e anche sul gruppo o la classe che essi formano.

Qui noto oggi due posizioni sbagliate. Dice qualcuno: io amo e aiuto il povero singolo e basta: non m’interessa la “classe” dei poveri. Dice un altro: io invece mi batto solo per tutta la classe dei poveri, per tutti gli emarginati, per il Terzo Mondo; curare i singoli poveri colla piccola carità non giova, anzi ritarda la rivoluzione definitiva.

Al primo rispondo: bisogna anche amare efficacemente i poveri che, uniti insieme e organizzati, stanno lottando per migliorare la loro situazione. Bisogna fare come Cristo, che ha amato tutti, ma ha privilegiato i poveri di intenso amore.

Al secondo dico: è bene avere scelto la causa dei poveri, degli emarginati, del Terzo Mondo. Attento, però, con la scusa dei poveri lontani ed organizzati, a non trascurare i poveri vicini. Povera vicina è la tua mamma: perché la disobbedisci e strapazzi? Povero vicino è il tuo professore: perché sei con lui così irrispettoso ed impietoso? E perché hai impedito con la violenza e il picchettaggio al tuo compagno di scuola di entrare con te in classe, col pretesto che egli ha idee politiche opposte alle tue? Sei per la grande causa della pace. Benissimo, ma attento che non si verifichino le parole di Geremia profeta: “Van dicendo: pace, pace, ma di pace non c’è neanche l’ombra!” (cfr. Ger. 6,14 e 11). La pace, infatti, costa: non si fa a parole, ma con sacrifici e rinunce amorose da parte di tutti. Non è neppure possibile ottenerla coi soli sforzi umani: occorre l’intervento di Dio.

E’ il monito natalizio degli angeli: una delle cose più belle, che Voi, caro San Luca, abbiate mai “registrato”: “Pace sulla terra per gli uomini che Dio ama!”.

Marzo 1974

http://www.papaluciani.com/ita/insegnamenti/lettere/illustrissimi.htm