In Italia non esiste ancora una legge organica sul “fine vita”, ma alcune norme importanti hanno definito principi fondamentali in materia di cure palliative, consenso informato e autodeterminazione del paziente. I riferimenti principali sono:
- Legge 38/2010 – Cure palliative e terapia del dolore
- Legge 219/2017 – Consenso informato e Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)
- Sentenza 242/2019 della Corte costituzionale – Depenalizzazione condizionata dell’aiuto al suicidio
- Legge 38/2010 – Cure palliative e terapia del dolore
Garantisce l’accesso universale alle cure palliative e alla terapia del dolore come diritto fondamentale. Mira a tutelare dignità, autonomia e qualità della vita del malato e della sua famiglia. Prevede reti nazionali di assistenza e formazione specifica del personale sanitario. Ha migliorato l’organizzazione delle cure ma persistono disuguaglianze regionali e carenze nelle reti pediatriche.
- Legge 219/2017 – Consenso informato e DAT
Una legge definita “rivoluzionaria”, fondata sull’autodeterminazione del paziente.
Principali novità: Consenso sempre attuale: nessun trattamento può essere iniziato o proseguito senza consenso libero e informato, anche se salvavita. Nutrizione e idratazione artificiali considerate trattamenti medici, quindi rifiutabili. Introduzione delle Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT), con valore legale: ogni maggiorenne può indicare in anticipo le cure che accetta o rifiuta e nominare un “fiduciario”.
Gli aspetti chiave di questa legge sono i seguenti: rafforza la relazione di fiducia medico–paziente, basata su comunicazione chiara e partecipazione attiva. Riconosce la possibilità di rifiutare o revocare trattamenti anche salvavita, previa valutazione della capacità di intendere e volere. Impone al medico di rispettare la volontà del paziente, salvo incongruenze o nuove terapie.
Non introduce l’eutanasia, ma può aprire margini interpretativi sull’autodeterminazione del fine vita.
Sul piano della valutazione etica segnaliamo che:
- L’autonomia del paziente non è assoluta: non può chiedere trattamenti contrari a legge o deontologia.
- La legge promuove una cultura del favor vitae e del rispetto della dignità, evitando sia accanimento sia abbandono terapeutico.
- Non prevede espressamente l’obiezione di coscienza, ma riconosce la libertà del medico di non eseguire pratiche contrarie ai principi professionali.
- Sentenza 242/2019 – Corte costituzionale
In assenza di un intervento del Parlamento che non ha provveduto a emanare una legge di regolamentazione generale sul fine vita, la Corte è intervenuta con una sua Importante sentenza, alla quale sono seguite altri due interventi di minore importanza, ma sempre sulla stessa linea.
La Corte ha parzialmente depenalizzato l’aiuto al suicidio in casi specifici; deve trattarsi di persona affetta da patologia irreversibile e sofferenze intollerabili, mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, ma cosciente e consapevole.
La Corte non riconosce un “diritto a morire”, ma un’estensione del diritto a rifiutare le cure (art. 32 Cost.). Questo è il punto teorico che più ha fatto e fa discutere.
L’aiuto al suicidio è lecito solo se verificato da strutture pubbliche, con garanzie mediche, etiche e di tutela dei soggetti fragili. La Corte continua a invitare il legislatore a intervenire per una disciplina organica del fine vita.
In conclusione, l’Italia dispone oggi di un sistema basato sul consenso informato, cure palliative e dignità della persona, ma manca ancora una legge complessiva sul fine vita.
Le norme attuali permettono già di rispettare l’autodeterminazione del paziente e di evitare accanimento terapeutico, senza introdurre l’eutanasia.
Fondamentale è la cultura del rispetto della vita e del dialogo medico-paziente, che deve guidare ogni decisione etica e clinica nel fine vita. La Corte rifiuta in modo chiaro l’eutanasia, tanto che ha bocciato il referendum costituzionale sul tema dell’eutanasia, perché ritenuto privo di quelle garanzie a favore della vita che la Costituzione italiana richiede.
4. Il Magistero Cattolico
Il confronto tra la situazione legislativa italiana e l’insegnamento della Chiesa Cattolica sul fine vita vede una certa consonanza: in entrambe le posizioni c’è un rifiuto del dare la morte e un accordo sul lasciar morire. Tenendo conto che la consistenza di quest’ultima azione è di difficile precisazione. Infatti, occorre precisare ciò che in realtà eutanasia non è, ed evitare, nei fatti, un vitalismo a oltranza pur se in via di principio si professa il rifiuto dell’accanimento terapeutico.
Nella ricerca di un aiuto al discernimento in queste difficili situazioni aiuta il richiamo ad alcuni importanti interventi del magistero. In primo luogo la Dichiarazione sull’eutanasia IURA ET BONA del 1975, testo forse troppo trascurato della Congregazione per la Dottrina della Fede:
“È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività. Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.”
Sul punto del testo in cui la Congregazione dichiara lecito il rifiuto dell’accanimento terapeutico è intervenuto Papa Francesco. Si tra del discorso rivolto alla sezione europea dell’Associazione mondiale dei medici (WMA) durante la sua sessione di studio tenutasi in Vaticano 16-17 novembre 2017. In quel discorso Papa Francesco valorizza la coscienza e la centralità del malato e parla di doverosità della sospensione dell’accanimento terapeutico e non solo di una sua liceità morale. Vediamo il testo:
È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo.
È molto importante comprendere questo passaggio dalla facoltatività alla obbligatorietà della rinuncia all’accanimento terapeutico. Tale obbligo si ritrova nei nuovi codici deontologici dei medici e in alcune disposizioni delle leggi civili, ma finora non era presente nell’insegnamento della Chiesa. Per capire il senso del passaggio dobbiamo concentrarci sul fatto che la coscienza del paziente deve emettere un giudizio sulla proporzionalità delle terapie a cui è sottoposto, naturalmente se le sue condizioni gli consentono di farlo, in altre parole, se il paziente è competente. Possiamo chiederci quale sia la materia di questo giudizio. Il paziente è chiamato a decidere in relazione alle sue “forze fisiche e morali”. Queste forze sono in prima battura oggetto di una valutazione medica, relativa al carico di sofferenza delle terapie, e agli effetti collaterali che esse hanno sul malato. Ma si può allargare l’orizzonte e includere altri elementi come già lo stesso Pio XII lasciava intendere nel suo importante discorso del 1957. In quel discorso il giudizio della coscienza del malato poteva ricomprendere anche “l’onerosità per altri e le circostanze delle persone, dei luoghi, dei tempi e delle culture”. I fattori non clinici possono avere un forte impatto sulla capacità del paziente di sopportare terapie anche molto faticose. Possiamo pensare alla nascita imminente di un nipotino, al matrimonio di un figlio, alla riconciliazione con un parente, ecc. Sono tutti elementi che possono rafforzare il desiderio di vivere anche in condizioni precarie, almeno fino alla realizzazione dell’evento desiderato.
È abbastanza chiaro che il processo di formazione del giudizio può essere molto laborioso, perciò occorre procedere senza fretta. Qui si apre pure il capitolo dei tempi che i medici possono dedicare alla comunicazione con i pazienti gravi. Ci possono esser casi di disaccordo tra indicazioni mediche e preferenze dei pazienti. In ogni caso una volta che si è raggiunto un giudizio questo diventa doveroso. Attraverso questa indicazione papa Francesco recupera un elemento costante della tradizione cristiana: quando la coscienza della persona, dopo aver valutato tutti fattori in gioco, clinici, relazionali ed etici, raggiunge un giudizio, quest’ultimo diventa la norma prossima del suo agire. In altre parole, il bene individuato attraverso il discernimento non è facoltativo, ma doveroso. In questo senso il Papa parla di doverosità della sospensione delle terapie, quando il giudizio della coscienza le ha valutate come accanimento terapeutico.
A questo punto si rende necessaria una precisazione. La valutazione del paziente e il suo eventuale rifiuto delle terapie non è sufficiente per dichiarare i trattamenti medici come trattamenti sproporzionati. Abbiamo visto che i fattori in gioco nella valutazione sono numerosi. Tra questi c’è anche l’intenzione del malato. Se questi, in presenza di terapie salvavita, che consentono di vivere degnamente un congruo periodo di vita, dovesse comunque rifiutarle, tale rifiuto del paziente si configurerebbe come eutanasia omissiva. E su questo punto papa Francesco ha parole molto chiare nel testo del messaggio: l’eutanasia rimane sempre illecita. La definizione di eutanasia che si presenta nel messaggio è quella estesa di Evangelium Vitae n. 65: “un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati”. Alla luce di questa definizione, il rifiuto intenzionale di terapie salvavita realizza la forma omissiva dell’eutanasia.
Don Michele Aramini


