Ponencia para la Jornada. Médicos de Barcelona, 16 de marzo de 2017

 

Premisa: cinco observaciones críticas a la propuesta filosófica del transhumanismo

Padre Mchele Aramini

Damos aquí por conocido lo que constituye el corazón de la filosofía transhumanista. La actitud que hemos de afrontar respectoa esta corriente intelectual no puede ser de pura y simple liquidación, sino más bien de una discusión sobre el mérito, que tenga en cuenta tanto la efectiva viabilidad de un cambio tan radical de la naturaleza humana, como si son deseables las consecuencias que esto conllevaría. Para esta discusión necesaria hemos de preguntarnos acerca de las siguientes cuestiones.

 

  • Factibilidad

 

Por lo que se refiere al primer aspecto, tenemos que subrayar el fuerte carácter especulativo de los objetivos centrales del transhumanismo: si la radical transformación de la humanidad que el mismo preconiza comprende la posibilidad de un potenciamento ilimitado de las capacidades cognitivas y de una efectiva victoria sobre la enfermedad y la muerte, es difícil pensar que se trate de objetivos realmente alcanzables.

Basta pensare alla diffusione sempre maggiore delle patologie neurodegenerative, per le quali attualmente non vi sono rimedi efficaci, o alla strada ancora da fare per comprendere e combattere i meccanismi patologici di molte tra le principali cause di morte, come numerosi tumori, per rendersi conto che questi obiettivi sono al momento inconcepibili; d’altro canto, si può notare che anche l’individuo transumano sarebbe pur sempre suscettibile alle malattie, in quanto esposto all’attacco di nuovi agenti patogeni, coevoluti con esso. Ciò non varrebbe solo nell’ipotesi estrema che si giunga al superamento della condizione biologica, ossia a un individuo a tal punto ibridato con parti meccaniche da costituire una sorta di robot altamente ingegnerizzato. Questa prospettiva, davvero inquietante, sembra al momento potersi relegare nel campo della pura fantascienza. Quanto più invece il programma transumanista si limita a perseguire risultati più modesti, tanto più diventa realistico. L’ipotesi di una certa accelerazione di processi già in atto, come alcune forme di ibridazione uomo-macchina, un consistente incremento della speranza di vita, un rilevante potenziamento delle capacità di attenzione, memoria, ragionamento, non configura però un effettivo superamento della condizione umana: l’uomo così potenziato sarebbe ancora un individuo biologico – e perciò sottoposto a vincoli naturali –, anche se più longevo, dotato di un’intelligenza quantitativamente più potente e di un corpo largamente integrato da dispositivi tecnologici o informatici (come già oggi avviene per semplici macchinari come il pace maker). Questo pare un esito plausibile e perfino probabile, ma indubbiamente assai lontano dai più ottimistici scenari transumanisti. Si tratterebbe ancora di un individuo in una condizione corporea, plasmato dai propri desideri e dalle proprie emozioni, dotato di molti più mezzi per soddisfare i propri bisogni, ma capace di interrogarsi su come usarli, perché in grado di porsi la domanda sui propri fini e sul senso della propria vita. Occorre in ogni caso chiedersi se sarebbe ragionevole o desiderabile cercare di produrre un simile risultato.

I transumanisti propongono esplicitamente di passare da un’evoluzione biologica guidata dalla natura a un’evoluzione diretta dall’essere umano; la tecnoscienza contemporanea potrebbe infatti indirizzare l’evoluzione in maniera da produrre più rapidamente quei benefici altrimenti realizzabili soltanto nei tempi lunghi dell’evoluzione naturale. Le obiezioni standard, a questo proposito, sono due.

Da un lato, quella che accusa questo progetto di orgoglio prometeico (hybris), ovvero sottolinea che è folle presumere di saperne a sufficienza e che non siamo affatto in grado di intervenire sui meccanismi naturali evitando danni irreparabili; dovremmo invece adottare il principio di precauzione, lasciando che sia la natura a occuparsi dell’evoluzione (nature knows best). Dall’altro, l’obiezione che fa leva sul carattere “innaturale” dell’intervento modificativo; proprio perché l’essere umano è il vertice della creazione, si sostiene che non gli sia lecito farsi diverso da come è stato creato: la natura umana non può dunque essere modificata e l’obiettivo di andare “oltre” l’uomo risulta intrinsecamente immorale.

 

  • Sabiduría de la naturaleza

 

La primera objeción subraya la “sabiduría” de la naturaleza respecto a la inevitable “insapiencia” de los proyectos humanos.

Essa ha indubbiamente una sua pertinenza, dal momento che è difficile pensare che gli esseri umani possano fare meglio, e in un tempo molto più breve, quanto la natura realizza attraverso lunghissimi processi che avanzano con grande lentezza, per tentativi ed errori. Al tempo stesso, però, sembra ragionevole la replica dei transumanisti che osservano come l’evoluzione naturale fosse appropriata per condurre l’umanità fino allo stadio attuale, mentre l’evoluzione diretta è necessaria per provvedere ai nuovi scopi che l’umanità oggi si propone; d’altro canto, proprio l’evoluzione naturale ci ha condotti a poter disporre di strumenti di intervento i quali rendono sensato ricercare nuovi scopi. La possibilità di produrre effetti collaterali negativi deve certo essere tenuta presente come richiamo costante alla prudenza nella sperimentazione, ma non si può presumere che gli effetti negativi eventualmente derivabili siano senz’altro superiori ai benefici che ci si può attendere (Bostrom N. – Sanderg A., «The Wisdom of Nature: An Evolutionary Heuristic for Human Enhancement», in Savulescu J. – Bostrom N. (edd.), Human Enhancement, Oxford University Press, Oxford (2009), 375-416.).

 

  • “Contro natura”

 

Más relevante, si se entiende adecuadamente, parece la segunda objeción. Los transhumanistas suelen decir que es característico de la naturaleza humana el hecho de no tener naturaleza, es decir que la humanidad no puede concebirse como una esencia fija e inmutable, so pena de asumir una posición radicalmente antidarwiniana; por eso decir que la naturaleza humana no puede ser cambiada presupone una concepción metafísica discutible y superada.

In realtà, il riferimento all’idea di natura umana è del tutto compatibile con il riconoscimento della vocazione dell’uomo a modificare se stesso e il proprio ambiente naturale e con l’affermazione della capacità umana di trascendere le proprie condizioni attuali. Tale riferimento sottolinea però, in primo luogo, i limiti naturali di questa capacità dell’uomo di plasmare se stesso: ad esempio, ci sono con ogni probabilità dei limiti biologici sia alla possibilità di prolungare la vita umana sia alla capacità del cervello di immagazzinare e utilizzare informazioni; in secondo luogo, il riferimento alla natura umana sottolinea il carattere normativo di alcuni aspetti centrali del modo di essere dell’uomo che ne costituiscono la ragione di dignità. L’essere umano, dice una tradizione filosofica secolare, è un “animale razionale”: ciò significa che ha certe capacità intellettuali, ha una volontà che lo orienta ad agire in base alle sue credenze, è in grado di assumere liberamente delle decisioni, può riflettere su di sé e criticare il proprio stesso agire, è capace di dialogare con gli altri e anzi deve entrare in rapporto con altri uomini, sia per soddisfare i propri bisogni sia per realizzare il proprio desiderio di felicità.

“Natura umana” indica il modo di essere definito da queste caratteristiche, un modo che è proprio dell’essere umano e che contribuisce al valore della sua esistenza: un individuo più longevo o più sapiente ma che mancasse della libertà di scelta sarebbe forse incapace di sbagliare, ma privo di quel peculiare valore morale che indichiamo con l’espressione “dignità umana”; un individuo che fosse incapace di emozioni e sentimenti profondi potrebbe non essere esposto alle difficoltà e alle crisi che segnano la psicologia umana, ma non sarebbe in grado di fare esperienze fondamentali di amore e di amicizia che contraddistinguono l’essere umano e rendono la sua vita significativa e dotata di valore. In questo senso, benché l’intervento manipolativo non sia “contro natura” nel senso che rispetta i vincoli posti dalle leggi di natura, potrebbe nondimeno non rispettare quelle condizioni “naturali” dell’essere al mondo dell’uomo che rendono la sua vita qualcosa di sensato e moralmente degno (Per il tentativo di difendere l’idea che anche la vita di un individuo postumano sarebbe dotata di dignità cfr Bostrom, «In difesa della dignità postumana», in Bioetica, 4, 2005, 33-46.).

 

  • Felicidad

 

Otro tipo de objeción al proyecto transhumanista se refiere a la sobrevaloración que este opera de las dimensiones cuantitativas sobre las cualitativas de la existencia humana.

Assumendo che il progetto di allungamento dell’attesa di vita riesca a garantire un numero significativo di anni in più rispetto alla condizione attuale, siamo certi che ciò contribuirebbe in maniera proporzionale all’aumento del benessere o della felicità umane? Assumendo che il potenziamento cognitivo estenda in misura consistente la quantità di informazioni che la mente umana può acquisire e manipolare, siamo certi che ciò ci renderebbe più profondi e intelligenti? Assumendo di poter meglio controllare le nostre emozioni e non cadere vittima di depressioni o altre alterazioni dell’umore, è sicuro che questo contribuirebbe alla nostra felicità psicologica (Kass L. R. «Ageless Bodies, Happy Souls: Biotechnology and the Pursuit of Perfection», in The New Atlantis, 1, (2003), 9-28, in www.thenewatlantis.com)?

Il progetto transumanista sembra accettare l’equazione tra aumento quantitativo delle capacità (o aumento del controllo individuale su di esse) e incremento del benessere o della felicità umana, un’equazione che pare decisamente problematica;

ciò non significa sostenere tesi discutibili sulla necessità o il valore della sofferenza nella vita umana, ma semplicemente ricordare che il valore e il senso di tale vita si misurano più in rapporto alla profondità delle esperienze di cui essa è piena che alla sua semplice durata o all’assenza di difficoltà e disagi. Spesso le conquiste migliori, quelle che maggiormente contribuiscono alla nostra felicità, sono quelle che passano attraverso la difficoltà, che mettono alla prova le nostre capacità e ci consentono di fortificarci superando le avversità; ciò vale sia nell’ambito intellettuale sia in quello emotivo o delle relazioni umane. Questo non significa negare qualsiasi significato al progetto di potenziare quantitativamente le nostre capacità, ma sicuramente problematizzare il valore incondizionato che il movimento transumanista sembra attribuirgli.

 

  • Equidad

 

Una última consideración importante se refiere a la cuestión de la equidad.

È vero che i transumanisti insistono sull’opportunità di garantire il più possibile un ampio accesso alle tecnologie di potenziamento che si renderanno disponibili; perciò non sembra appropriata la critica di chi riconosce in questo movimento un’indole elitaria.

En efecto, la visión de conjunto de las condiciones de salud y bienestar de la comunidad humana aconsejan dirigir hacia otro punto, prioritariamente, los ingentes recursos que serían necesarios para perseguir sistematicamente los objetivos del transhumanismo.

In effetti, se si considera che larga parte dell’umanità è attualmente priva dei mezzi fondamentali per condurre una vita sana e felice, a partire dalle risorse alimentari per arrivare a quelle dell’assistenza sanitaria di base, e presenta un’elevata mortalità per patologie che potrebbero facilmente essere debellate (come la tubercolosi o la malaria), il principio di giustizia impone che si contribuisca a sanare queste condizioni, prima di pensare di conferire benefici aggiuntivi alla parte dell’umanità che risulta già più avvantaggiata.

Anche ragionando in termini puramente quantitativi – ossia calcolando la quantità di benessere e/o felicità che è possibile produrre a parità di risorse erogate – è indubbio che un miglioramento significativo delle condizioni igieniche e sanitarie delle popolazioni del Terzo mondo produrrebbe una quantità di conseguenze positive incomparabilmente maggiore rispetto ai benefici che potrebbero essere garantiti alle popolazioni del Primo mondo, probabili beneficiarie di interventi come il potenziamento cognitivo o l’allungamento della vita. Inoltre, alcuni obiettivi transumanisti, come l’allungamento consistente della speranza di vita, metterebbero seriamente in difficoltà il rapporto tra le generazioni nell’accesso alle risorse, comportando una possibile penalizzazione delle generazioni più giovani e forse anche la necessità di limitare la libertà procreativa. In altri termini, sebbene alcuni interventi di miglioramento delle capacità auspicati dal transumanesimo possano sembrare in prima battuta del tutto sensati, la considerazione di varie questioni di giustizia ed equità distributiva sembra autorizzare più di un dubbio sulla loro effettiva desiderabilità nelle attuali condizioni dell’umanità. Proprio la rivendicazione di collocarsi nella scia della migliore tradizione dell’umanesimo sembra giustificare la conclusione che altri obiettivi umanitari debbano avere la precedenza su quelli transumanistici.

 

Parte teologica

La cuestión de la inmortalidad física

El movimiento transhumanista presenta también diversas facetas con respecto al tema decisivo de la inmortalidad.

Algunos exponentes como David Nicholas, piensan que el objetivo de la inmortalidad debe caracterizar al verdadero movimiento transhumanista. Según Nicholas, el hecho de que la muerte exista aún, hace estéril nuestro hablar sobre la libertad. “Sin la prospectiva de continuidad, nuestra visión está truncada, nuestro pensamiento está dominado por cálculos de plazos breves. Nuestras preocupaciones por el futuro se evaporan cuando aquel futuro no tiene lugar para nosotros. Y, sin embargo, para evitar el colapso psicológico, continuamos inventándonos modos de defensa”. Nicholas considera irrelevantes los varios intentos elaborados por el hombre para subrogar la inmortalidad de algún modo, incluida la propuesta de Richard Dawkins, que en su libro “Il Gene Egoista” sostiene que la única función del cuerpo humano es aquella de actuar como vehículo para la sobrevivencia de nuestros genes. Según el razonamiento de Dawkins hasta su conclusión lógica, el cuerpo sería energía pura y por lo tanto indestructible: ¡la muerte pude solamente cambiarle su forma! Pero aquel, según Nicholas, solo puede ofrecer una pobre consolación mientras no afronta el problema del verdadero enemigo: el olvido personal de cada uno.

Al parecer de Nicholas, solo los existencialistas se acercan a una interpretación correcta del significado de la muerte. Aquellos que se describen ateos (común y justamente considerados como los representantes más coherentes de esta corriente de pensamiento) reconocen la paradoja central de la vida: es decir que la libertad implícita en la no-existencia de Dios se vuelve insignificante por parte del olvido en el cual termina la vida. Por lo tanto, Heidegger sostiene que para vivir verdaderamente, hemos de afrontar continuamente, sin máscaras, el límite impuesto de la muerte y aceptar la ansiedad que esto supone. Pero hasta aquí se trata todavía y solamente de interpretaciones, mientras el objetivo debe ser aquel de derrotar la muerte. “Aquello que queremos es nada menos que la inmortalidad física. Necesitamos sobrevivir manteniendo nuestra unidad psicosomática, es decir, manteniendo intactas nuestras memorias, nuestros pensamientos, nuestras esperanzas y nuestros deseos”. El eslogan con el que Nicholas saluda a sus lectores es emblemático: “Podemos construir la libertad desde la muerte, pero no podemos obtenerla con la oración…, después de haber inventado los dioses, ha llegado la hora de tomar su lugar”.

Si esta es la posición de Nicholas y de los “inmortalistas”, más cuidadosa es la posición de otros autores. Recuerdo los nombres de Max More, fundador de Extropy y filósofo de referencia para las temáticas en objeto y de James Hughes, preseidente de Humanity + (en ese entonces World Transhumanist Association, es decir, la asociación mundial de transhumanismo). Así es como se expresa More en su breve documento en la conferencia teológica de Pistoia del 2009, donde fue invitado: “El objetivo transhumanista del alargamiento de la vida es del todo coherente con esta opinión pro-vida. Debo decir, en este momento, que prefiero el término “vida extendida” (o “vida de duración indeterminada” o “sin edad”) al término “inmortalidad física” en cuanto que, no estoy nada seguro de que la inmortalidad verdadera – es decir, una vida que dure, literalmente, por siempre – sea posible”. En el mismo lugar Hughes expresó su opinón coincidiendo con la de More “los transhumanistas no están realmente interesados en la “inmortalidad”, sino solo en reducir las muertes evitables”.

Sin entrar en detalles ulteriores, registramos estas diferencias y nos concentramos en la pretensión de inmortalidad. De hecho, solo esta pretensión constituye un verdadero desafío para la reflexión teológica, mientras los mejoramientos de las condiciones humanas, por cuanto puedan ser imponentes, no cambian la condición mortal del hombre.

 

Factibilidad del proyecto inmortalista

También en este caso, la primera pregunta que viene espontanea es aquella sobre la factibilidad del proyecto inmortalista.

En el estado actual del conocimiento, se piensa que la edad máxima alcanzada de nuestra “materia” biológica sea de 120-130 años. Superar este límite no es un hecho seguro. En este punto los científicos se dividen. Para algunos es una posibilidad real, mientras para otros es solamente una hipótesis.

La cuestión es relevante, ya que el tema toma interés solamente si podemos salir del ámbito de la fantasía y entramos en el de la extensión de conocimientos conocidos. Sobre este punto, se debe observar que es necesario mucha cautela al momento de acoger hipótesis no sustentadas en bases científicas sólidas, pero existe igualmente el riesgo de refutar hipótesis que parecen solamente deseos o intuiciones. Este segundo perfil de la cautela se debe a la velocidad impresionante con la cual el futuro y sus posibilidades vienen a nuestro encuentro: El futuro es difícilmente mensurable con los parámetros actuales, por lo cual también las hipótesis que parecen más fantásticas pueden convertirse en realidad en poco tiempo.

En cualquier caso, el terreno de la discusión actual está marcada evidentemente por el carácter hipotético más que del realismo, pero no sería correcto refutar a priori la confrontación.

Actualmente las vías de investigación que apuntan a una extensión de la vida humana son aquellas relativas al conocimiento del mecanismo del envejecimiento y su contro, a través de fármacos y terapias genéticas. Esta primera rama ya tiene un lugar en la ciencia. Menos conocida es la segunda vía, aquella de la tecnología y su perspectiva de construir un nano robot entrante en nuestro organismo, con la tarea de monitorear y reparar los daños del cuerpo humano y mantenerlo en condición de buena salud. La tercera vía, y ciertamente la más perturbadora, es aquella que piensa en la digitalización de Yo, con el fin de lograr transferirlo de un cuerpo a otro y volverlo así inmortal verdaderamente. En este último caso, por el momento, no existe ni siquiera el conocimiento de base necesario para comenzar la investigación. Se trata de una hipótesis, de una esperanza de victoria sobre la muerte. En este caso calla la condición epistemológica de la ciencia, que no es ya una vía de conocimiento, sino que se le asigna un nuevo rol trascendente para responder a las expectativas, cada vez más amplias, del imaginario colectivo.

Más allá de que sean realizables estas expectativas, permanece positivo el hecho de que se tienda a mejorar la condición de la salud humana. Con la advertencia que la mejora debería ser esparcida sobre todos los hombres y no solamente en los más ricos.

 

Investigación de la Inmortalidad y la Teología

Entramos ahora en la discusión del significado de la investigación de la inmortalidad para la teología.

Como ya hemos señalado, el reto más interesante para la teología es el de enfrentarse con la propuesta de una inmortalidad verdadera y no con el proyecto de una simple prolongación de la vida.

Obviamente la prolongación de la vida en buena salud es considerada como deseable por la mayoría. En realidad eso obtendría toda una serie de problemas jurídicos, políticos, sociales y éticos de difícil solución. Pero en este caso nos quedaríamos conceptualmente dentro de la finalidad y de la mortalidad. Algunas asociaciones transhumanistas hacen una referencia al patriarca Matusalem para indicar una amplia duración pero finita de la vida.

En segundo lugar, esta nueva vida sin límites, debe de tener una calidad considerable. Hoy en día se pone el problema de la vejez y de la calidad de la vida en este periodo de la existencia, al punto que algunos piensan que la eutanasia es una solución deseable para esas situaciones de insuficiente calidad de vida.

Entonces la vida cronológicamente indefinida debería ser acompañada de una calidad de alto valor, una especie de eterna juventud, de otra manera se transformaría en una pesadilla.

En tercer lugar, hay que pensar en un aspecto problemático de esta hipótesis de inmortalidad. La eliminación de la muerte por causas bilógicas no eliminaría las otras causas de muerte. Incluso los más defensores de la inmortalidad no se atreven a pensar en la inmortalidad biológica y la invulnerabilidad. El ser humano y el género humano pueden morir por incidentes, violencias, guerras, etc. La misma vida en la Tierra, el sistema solar y el mismo universo tienen una duración amplia pero definida. Se trata de un tiempo larguísimo que no afecta sobre nuestra alma (psique), pensemos en lo que significa la expresión 15 millones de años, referida a la duración de nuestro universo. Sin embargo para el propósito de la especulación filosófica, un tiempo larguísimo pero definido es diferente a un tiempo infinito. El hombre permanecería siendo mortal y, entonces, no habría cambiado radicalmente la condición humana.

La tercera vía de investigación es esa que intenta el camino de la verdadera inmortalidad. La forma de la realización es precisamente el de una digitalización de la personalidad, que hace una copia de seguridad, para después ser transferida a un nuevo cuerpo totalmente artificial. En este caso, dando por cierto que la digitalización del yo afectaría solo a la mente y no al cuerpo, se plantearía la cuestión de mantener la singularidad de la identidad individual. De hecho el cuerpo humano no es un solo mero soporte de la persona, como piensan erróneamente una cadena de filósofos anglosajones que se remontan a Locke.

 

La visión teológica

De manera preliminar se debería abordar la cuestión del sentido de la vida. Cuestión que no puede ser atribuida a un tipo de fijación teológica, sino que es propia también de toda una larga serie de reflexiones de autores ateos. Es suficiente una sola citación que reproduzco de Nathan Coombs, joven filósofo de la prestigiosa Universidad Royal Holloway de Londres. Él afirma que: “Thomas Khun argumentó que cada revolución del pensamiento humano implica no sólo el progreso, sino también una perdida. Y es lo que ocurrió con el ascenso del ateísmo a partir del siglo XVIII (dieciocho) en coincidencia con una visión más empírica del mundo. A partir de entonces los elementos lógicos inductivos accesibles han sido abandonados cada vez más a la torre de marfil compuesta por filósofos y teólogos. El resultado es que existe una dimensión del mundo que el sistema de escuela laico ignora casi del todo, es decir la metafísica. Contrariamente al folclore modernista, no se trata de una reliquia de pensamiento anterior a la Ilustración. De hecho su relevancia persiste en dos modos:

 

  • El primero se refiere a nuestra compresión del mundo a través de la modalidad que escapa al método empírico. Por ejemplo la idea de los acontecimientos: los fenómenos sin ningún tipo de propiedades verificables, pero que se justifican para dar un sentido a cuestiones relativas a la casualidad y a la transformación.
  • En segundo lugar y más importante están los grandes ¿por qué? Preguntas que desempeñan un papel en los pensamientos existenciales irreducibles sobre la vida: ¿Por qué hay algo en lugar de nada?

 

Estas preguntas que los ateos descuidan juegan un papel importante en la vida de todos. Con demasiada frecuencia los ateos ideologizados se niegan a abordar estos temas durante los debates con los religiosos, haciendo creer que su falta de consideración en estos temas sea en realidad una garantía de madurez y de laicidad. De hecho no se puede excluir estas preguntas de la vida, por eso el ateísmo moderno fue arrojado desesperadamente a los brazos del dios de la ciencia (cientificismo) pidiendo, haciéndose ilusiones, dar sentido a la propia vida.

Si la búsqueda del sentido surge de una vida limitada, a mayor razón se debe preguntar por una vida sin límites. Sería verdaderamente contradictorio que una vida carente de significado y fruto de la casualidad (como afirma J. Monod en su célebre texto “El caso de la necesidad” y otros muchos científicos como él), se vuelva deseable, al punto de volverla inmortal. Del caso surge la norma. Parece una contradicción insuperable. Se abre a tal punto una pregunta que no puede permanecer sin ser debatida.

 

El proyecto de Dios

El hilo conductor del concepto de Alianza recorre toda la Biblia y constituye la columna vertebral. Este proyecto divino tiene como objetivo la recreación del hombre por su elevación al rango de hijo de Dios. El Nuevo Testamento expresa de muchas maneras el plan divino, pero el término que mejor ilumina la cuestión de la inmortalidad es sin duda “la vida eterna”, que consiste en conocer y estar con Dios:

“Esta es la vida eterna: que te conozcan a ti, único Dios verdadero y a tu enviado, Jesucristo” (Jn 17, 3).

Cada ser humano quiere vivir. Desea una vida verdadera, llena, una vida que valga la pena, que sea una joya. Este anhelo por la vida es, al mismo tiempo, una resistencia a la muerte, pero sin embargo es inevitable. Cuando Jesús habla de la vida eterna, Él se está refiriendo a la vida real y verdadera, que vale la pena vivir. No simplemente hablar de la vida después de la muerte.

En este sentido es emblemática la resurrección de Lázaro (Jn 11, 1-44), el cual resucitado vuelve a la vida de nuevo para estar sometido de nuevo a la muerte terrenal. Mientras las hermanas Marta y María, movidas por la pregunta de Jesús, expresan la fe en Jesús, condición para ver la gloria de Dios (v 40).

La inmortalidad en sentido cristiano no es característica puramente temporal, de un prolongamiento indefinido de la existencia, sino la entrada en una nueva dimensión, donde es decisiva la comunicación con Dios, del cual se recibe una plenitud de vida que no podemos describir sino con la anticipación que viene del amor inaudito de Jesús por cada uno de nosotros.

A la luz de estas consideraciones, el hombre en condiciones de inmortalidad, ganadas a través de los medios tecnológicos, no estaría exento de la decisión por Dios. Incluso este hipotético hombre inmortal debe decidir si se conforma con la vida inmortal que ha construido con sus propias manos o aceptar el regalo que se ofrece en la Iglesia por el Hijo de Dios. La aceptación de Dios elevaría a este hombre a la inmortalidad de la vida eterna y a la plenitud de la gloria de Dios.

Por lo tanto la teología plantea la pregunta inevitable del ejercicio de la libertad. Sin decisión por Dios no hay ni fe cristiana ni vida eterna, al máximo puede existir un complejo de doctrina y de ritos.

 

La cuestión de la libertad en relación a la inmortalidad

¿Es la inmortalidad un beneficio esencial para la libertad humana, como afirma David Nicholas?

La condición moral del hombre contemporáneo nos instruye sobre el hecho de que la reclamación incluso obsesiva de la libertad del sujeto, corre el riesgo de convertirse en una pérdida de la libertad.

En primer lugar, se abre el campo a la idea de que Dios pueda ser enemigo de la libertad humana. En realidad a partir de la liberación del pueblo de Israel de la esclavitud de Egipto, Dios siempre ha efectuado el papel de liberador del hombre. En Jesucristo se llega al ápice de esta liberación: Él es el fundador de la libertad del hombre, porque le permite cumplir la voluntad más alta, de ir contra el mismo Dios: “¿también vosotros queréis marcharos?” (Jn 6,67).

El hombre contemporáneo ha entrado en una situación paradójica: reclama la libertad pero teme usarla.

Teme usarla porque la libertad conlleva un riesgo inevitable: decidir por una buena causa y ser fiel a ésta con coherencia, dándose una identidad a uno mismo. ¿Pero quién garantiza que esta buena causa sea la correcta, verdadera y plenamente humanizadora? Por esto, es necesario tomar una decisión que no podrá basarse sobre garantías científicas o, dicho de otra forma, sobre evidencias irrefutables. La decisión será basada únicamente sobre el encanto de la causa. Es la fe. Es necesario decidir para usar la libertad, pero para decidir es necesario confiar en una buena causa.

De este modo se arriesga, pero frente a este riesgo se asume una identidad: me vuelvo cristiano, me vuelvo filántropo, me vuelvo alguien que lucha por la justicia, etc.

Sin decisión uno no se da a sí mismo una identidad definida, y se asume cada vez una identidad sugerida por la conveniencia del momento. Se desarrolla un modo de vivir según una lógica por la cual se somete todo y a todos a experimentación, a prueba, para ver qué cosa conviene hacer, sin que el sujeto tenga una proyección, una planificación moral propia. De este modo, la libertad no se usa para elegir un proyecto, sino solo para ver qué se debe hacer cada día. Este tipo de libertad da origen a un “hombre sin cualidad”. ¿Podría suceder lo mismo al hombre inmortal? Una vida indefinidamente larga y sin cualidad moral. También esta se convierte en una cuestión abierta.

 

Normativa de la muerte de Cristo

En esta línea de pensamiento no podemos dejar fuera la contribución de K. Rahner sobre la muerte como cumplimiento de la libertad. Hemos dicho que el hombre debe ejercitarse en la libertad para cumplirse a sí mismo, de lo contrario corre el peligro de no tener una identidad autónoma. En la lógica cristiana el hombre debe pronunciarse con su libertad y con su fe incluso al ir en contra de Dios. El mismo Jesús ha cumplido realmente su libertad, su amor, su confianza en el Padre, en el momento supremo de la muerte en la cruz: “Padre, en tus manos encomiendo mi espíritu” (Lc 23,46).

Rahner, releyendo la muerte en su realidad dialéctica y su naturaleza “velada”, pone radicalmente en discusión la definición usual de la muerte como “separación del alma y del cuerpo” y, para superar el dualismo inaceptable, propone la tesis de la “pancosmicidad alma”. Son originales sus consideraciones sobre el aspecto personal de la muerte como fin del “status viatoris”, como unidad dialéctica de acción y pasión, como realidad que pone en relación tiempo y eternidad. Terminando con reflexiones de sorprendente delicadeza sobre la relación entre muerte y pecado y la posibilidad de “co-morir” con Cristo.

Es realmente el co-morir con Cristo lo que es rico en consecuencias para el morir humano. De hecho, el acontecimiento personal de Jesucristo nos instruye sobre aquello que la muerte requerirá a cada hombre: 1) haber consolidado la propia identidad al punto de saber habitar el nombre sin recurrir a otras referencias; 2) haber aprendido el desapego a todas las cosas; 3) haber interiorizado con tanta intensidad a los otros hombres que se pueda partir sin miedo a la soledad; 4) haber aprendido a amar en modo oblativo, para saber darnos sin lamentarse; 5) haber aprendido a confiar en la vida, así como saber perderla para recuperarla. La muerte de Jesús es el cumplimiento pleno de la humanidad del Hijo y camino para cada hombre.

Por lo tanto, si el Verbo encarnado ha tenido que enfrentar la muerte, venciéndola con su acto de amor total que es también acto de confianza total en el Padre, también para la humanidad y para cada hombre el acceso a la vida eterna debe ser constituido por nuestro “co-morir” con Cristo (Cfr. Rom 6).

 

Algunas consideraciones finales

Una discusión exhaustiva debería naturalmente tomar en consideración otros aspectos, particularmente los medios propuestos para realizar estos objetivos. Algunos de ellos, de hecho, presuponen la manipulación genética del embrión humano, o en cualquier caso la destrucción del embrión con el propósito de obtener células madre que se utilicen para la medicina regenerativa. Un procedimiento similar es altamente discutible desde el punto de vista ético, en cuanto trata a los individuos humanos en proceso de formación como medios hacia un mayor beneficio para otros individuos adultos. Sin embargo si nos detenemos en los fines que propone el transhumanismo, debemos decir que no necesariamente parecen ser inaceptables, sobre todo si se asumen en una forma moderada que parece ser la más plausible desde el punto de vista práctico; en cambio, lo que resulta discutible es la ideología cientificista en base a la cual la ciencia y la tecnología aparentan constituir las únicas formas de saber de forma que se pueda decir una palabra significativa sobre la vida humana, sobre el sentido de esta y sobre su posible felicidad. Por otro lado, una consideración más amplia conduce a tener en cuenta los peligros que el potenciamiento tecnológico presenta, sea en cuanto a las características “naturales” de la condición humana, o en cuanto a la posibilidad de comprometer algunas de las fuentes más profundas de la felicidad humana, o finalmente en cuanto a la probabilidad de violar requisitos fundamentales de la justicia.

Más allá de la simpatía y de la esperanza que algunas propuestas del movimiento transhumanista puedan suscitar, bajo el perfil teológico sigue siendo particularmente problemática la prospectiva de la inmortalidad terrena.

El encuentro del pensamiento cristiano con la sola hipótesis inmortalista abre una serie de cuestiones sobre el sentido de la vida, la identidad moral de la persona humana y el ejercicio de la libertad. Por último, se pone la cuestión de la normativa de la muerte de Cristo. Tal vez este es el aspecto de la teología y antropología cristiana que pone la crítica más penetrante al deseo de inmortalidad terrena.