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FILIPPO MARIA BOSCIA* 
– Preparando una relazione, mi piace riflettere ed anche pormi delle domande. Oggi l’attualità ci propone il disumano ragionevole: l’uccidere per pietà, sostenuto da tante giustificazioni. Ma il disumano ragionevole serpeggia sotto certi aspetti in tutti gli ambiti sociali, come serpeggia nell’ambito medico. E il tema che mi è stato assegnato mi ha fatto riflettere su un capitolo molto importante sulla relazione. Quella particolare relazione che si instaura tra medico o operatori sanitari in genere e paziente. Una relazione che quando si instaura è praticamente la parte integrante di un ambiente che è l’ambiente curativo. Non ci può essere un ambiente di cura se non c’è un ambiente di relazione. La relazione è l’essenza centrale per il raggiungimento dell’obiettivo medico della cura, orientato sempre al massimo benessere del paziente.

L’ambiente curativo non è fatto soltanto di camici e di pigiami, secondo una definizione di moda qualche anno fa, ma è fatto di medici o operatori sanitari che incontrano pazienti sofferenti. Pazienti, da “patio”, e non come oggi che si vuole si dica cittadini, utenti, esigenti, che poi diventano clienti. Pazienti: patio, sofferenza, incontro. L’ospitale o ospedale: non è uno stabilimento di cura, non è un’azienda, ma è un luogo che a braccia aperte si rivolge verso gli ammalati per accoglierli, dando loro il massimo che abbiamo e dobbiamo.

Ma la relazione oggi è molto inquinata dalla divulgazione che, come accade in questo momento di pandemia con i vaccini, pretende da parte di tutti un’informazione esasperata. Basta l’informazione o l’informazione non basta? Informare non basta! Ci vuole la relazione. Che non può essere né frettolosa né incompleta. Perché nella relazione e nel colloquio con il paziente si rappresenta la forma più nobile dell’arte del comunicare. Perché in questo nobile atto avviene una condivisione. Occorre condividere, cioè portare dentro la comunicazione ogni supporto psicologico, fermo e profondo, per cui occorre la partecipazione umana, intima e profonda. Tra medico o operatore sanitario e paziente.

Tutto questo va sotto il nome di dialogo, parte essenziale ed irrinunciabile perché si possa creare un’alleanza. Dialogare con il paziente significa comunicare sulla stessa lunghezza d’onda, con un continuo scambio di parole e di sfumature espressive, i cui toni devono essere prontamente modulati e adattati, anche in relazione alla mimica del soggetto: dobbiamo prendere in considerazione il suo atteggiamento, soprattutto se lo vediamo sorpreso, ansioso o spaventato.

La persona ammalata o comunque sofferente ha bisogno di un messaggio di luce. Ha bisogno di essere illuminata e la comunicazione illumina la conoscenza. Mi augurerei che il messaggio tra sanitari e pazienti diventi sempre un messaggio di luce. Che insieme porta la scienza, l’umanità, la speranza. E direi l’arte. Perché la medicina che tutti chiamano, talvolta in maniera degradante, un mestiere, in realtà non è un mestiere, non è una professione, ma un’arte. E’ l’arte di comunicare vaoltre e può diventare arte della cura.

Allora, in un colloquio vien fuori che dal semplice “comunicare per intervenire” noi possiamo passare ad “intervenire attraverso il comunicare”. Un percorso che si fa insieme. Anche perché non conosciamo tutto del paziente quando lo incontriamo. Ci vuole ascolto, dialogo, risposta e, da medico cattolico, direi preghiera, direi conforto.

Quindi mai comunicazioni frettolose, ma alleanza che si snodi non nell’attimo fuggente ma in un percorso lungo, le cui tappe successive richiedono tempo per essere assimilate. Una metodologia questa che oggi sembra costituire l’impresa più difficile che gli operatori sanitari affrontano. Difficile perché non è insegnata da nessuno, difficile perché in università non se ne parla, difficile perché ognuno la deve elaborare secondo il suo modo di vedere, secondo la sua fede, secondo la sua coscienza e secondo la sua sensibilità.

Oggi la tecnologia medica è andata avanti in modo così veloce e progressivo, sì da farci teorizzare chegrazie alla tecnologia i pazienti escano dall’ospedale più soddisfatti. In realtà non è così, anzi sono molti i pazienti che lasciano gli ospedali insoddisfatti. Hanno fatto tutte le più strane e possibili analisi, ma escono dall’ospedale nell’incertezza. Essi lamentano l’attuale snaturarsi della relazione di cura, perché ci sono tanti incontri, ma tutti impersonali, spesso anonimi ed ancora umanamente disimpegnati, come quello che interviene freddamente tra prestatori d’opera e clienti, cioè i fruitori di tale opera. Dovremmo raccomandarci di non vedere mai i pazienti con l’occhio di un commercio che identifica i clienti che si avvicinano a questa scelta. Altrimenti diventa un “doctor shopping”: entro ed esco dal negozio, prendo ciò che mi serve, poi sono insoddisfatto e vado da un altro, poi ritorno ancora dal primo e così via. Questo shopping riguarda medici e pazienti nei contatti frettolosi, purtroppo condizionati da quel che sono oggi ospedali, che devono obbedire a determinate regole,cioè garantire prestazioni rapide (day service, day hospital, daysurgery, poche ore di ricovero, pochi giorni dopo gli interventi, in terza giornata si esce), quindi medici e pazienti difficilmente sanno qualcosa gli uni degli altri.

Se noi guardiamo alla medicina ultra specialistica, possiamo incontrare anche specialisti che, focalizzati sull’organo, mirano alla massima competenza tecnologica non considerando il paziente nella sua globalità. Quante volte nelle corsie si sente: “Chiamate la colecisti! Fate scendere l’occluso in sala operatoria! C’è un taglio cesareo urgente! Eh, questi ostetrici prevaricano sempre, vogliono sbrigarsi per correre nei loro studi” e altre cose del genere, con commenti certamente poco edificanti.

Partendo da queste e da molte altre considerazioni,non esito a sostenere che molteplici eventi e riferimenti della medicina moderna oggi sono in crisi: l’umanità del medico, è già entrata in crisi, e rischia di sprofondare nel baratro se non si sarà capaci di riprendere la giusta via e risalire faticosamente la china. E lo potremo fare solo se saremo di nuovo capaci di leggere la biografia, mai disgiunta dalla storia naturale e familiare della persona ammalata. Questa capacità in molti casi è purtroppo dimenticata!

Cerchiamo di essere capaci di ponderare al meglio tutti i risvolti umani nei percorsi di fragilità.

Non basta l’anamnesi o una semplice biografia fisica. Ci vuole una biografia cognitiva, cioè rintracciare anche i pensieri di quella persona, esplicitare le sue richieste, valutare le sue biografie affettive. E non solo, Se dobbiamo incidere e incedere nella patologia, dobbiamo anche essere capaci di valutare la biografia sociale della persona, che si esprime nelle relazioni all’interno della comunità e pure all’interno della sua famiglia. E infine ricordarci che esiste una biografia spirituale, che da sola ci introduce ad un livello esistenziale profondo, come ha ben sottolineato il cardinale, che è quello dell’universo personale dei valori, delle risorse interiori, di quella che oggi viene chiamata con un termine ricorrente la resilienza, in questo caso messa in atto dal paziente per far fronte alla malattia, che comprende la fondamentale adesione particolare ad una fede, qualunque essa sia. Ne deriva da questo che se noi ci accostiamo secondo principi di alleanza alla persona ammalata compiamo un’opera splendida, un incontro tra una fiducia ed una coscienza, fiducia del malato e coscienza del medico.

Qual è la coscienza del medico di fronte alla malattia? E’ quella di dare delle risposte abili, da cui penso derivi il termine respons-abilità, che oggi noi vediamo generalmente come un evento medico-legale, ma non è questo il senso, bensì quella responsabilità che dovremmo ricercare in noi stessi per essere adeguatamente capaci di rispondere all’altrui fiducia. Per avere questa non dobbiamo aver paura e non dobbiamo aderire alla medicina difensiva, ma soprattutto essere capaci di trovare e capire quelle parole inespresse all’ammalato che lo rendono prigioniero di una gabbia dalla quale vorrebbe uscire con l’aiuto di qualcuno. E’ un prendersi per mano, un intervento di una cura diversa. Una cura di competenze, ma anche una cura di misericordia,inglobata nel più globale processo di presa in carico del paziente, di cui oggi sempre di più si parla, dall’ingresso dell’ospedale in poi, del suo vissuto e delle sue storie esistenziali.

Sogno una medicina non virtuale ma che utilizzi appieno i 5 sensi: la vista (lo sguardo), l’udito (l’ascolto), il tatto (per il tocco), l’olfatto (la percezione del profumo, del pulito, del gradevole) e il gusto (anche la scelta dei cibi fa parte di una terapia olistica).

A questi aggiungerei un sesto senso che comprenda equilibrio, termoricezione e propriocezione per saper riconoscere il dolore e la sua intensità e tutti i registri espressivi che fanno parte della comunicazione personale e dell’anima… Non possiamo assolutamente trascurare il dolore morale, perché tutti sappiamo quanto questo sia dominante e importante e quanto questo più degli altri possa condurre a dis-perare.

Se questi vengono doverosamente accettati come presupposti essenziali, allora tutti dovremmo rieducarci a gestire la tecnologia invece di farci gestire da essa;dovremmo ricordarci che la tecnologia non è moralmente neutrale, spesso ci droga e ci rende pericolosamente affetti da autoritarismo e tecnocrazia.

In sintesi, dovremmo essere illuminati e sapienti!

Per gli operatori sanitari essere illuminati significa percorrere percorsi cherichiamino la luce: la luce della cura, la luce della misericordia, la luce innovativa che ha un compito, quello di smorzare le paure, che sono sempre più emergenti, soprattutto quando si tratta di fragilità e delle più acute situazioni di sofferenza. Proviamo ad elencare le emozioni scatenate da una malattia alla quale segua un ricovero: Una malattia improvvisa che si scatena, cui segue un ricovero, si arriva in ospedale e la prima paura è di essere abbandonati, la paura di rimanere soli, la paura di non essere amati. Esiste una cura per gli sradicamenti, per le solitudini, per le emarginazioni? Nelle residenze sanitarie assistite sicuramente una persona viene sradicata dal suo ambiente e radicata in un altro,che pur se bello ed elegante è sempre un ambiente diverso. Sappiamo bene che una pianta sradicata da una parte e radicata altrove può ancora continuare a vivere,però può anche morire. Una seconda paura è di non essere più considerati, di non valere più: “mi sono fratturato una gamba, sono un calciatore, non sarò più come prima; ho avuto un ictus, non potrò più ragionare come prima” e così via. E quindi allontanare da noi l’immagine di non essere più stimato nell’ambito del dopo malattia, lenire quella sofferenza che si aggiunge alla sofferenza. C’è anche una terza paura, di non essere all’altezza di sopportare la malattia, di non farcela, di non avere la capacità di andare avanti e qualcuno crede anche di non meritarsi la vita: “ma che male ho fatto per meritarmi questo!”, cosa che induce a guardare alla vita come una realtà già conclusa. La paura che le cose non potranno cambiare più e che la possibilità di una vita sognata non si possa più realizzare.

Noi abbiamo il compito di accogliere queste paure e di aiutare il sofferente a portare alla luce le sue paure, prezioso gesto che diventa parte di un processo di aiuto globale alla persona nel momento più difficile, quello nel quale si intersecano fragilità, dolore, angoscia e incertezze. Portare alla luce le tante incertezze significa sviluppare la “luce nella cura” e per farlo abbiamo bisogno che si instauri un’alleanza, per mostrare un segno tangibile di vicinanza. Questo può essere fatto dappertutto: nelle cure domiciliari, nelle cure territoriali, nelle cure ospedaliere, negli hospices, nelle case di accoglienza, nelle residenze sanitarie assistite. Come anche può essere fatto nelle solitudini, può essere fatto in quei sottani che sfuggono ad ogni censimento, può essere fatto anche nei sottoportici, può essere fatto sui marciapiedi delle periferie delle grandi metropoli.

La luce, il lumen fidei, se correttamente inteso, ci dà veramente una chiave importante della relazione e ci dice anche che la cura può diventare “care”, secondo l’idea cristianadi assunzione integrale dell’uomo e del suo destino.Il medico deve tenacemente combattere contro ogni forma di sofferenza, fisica e spirituale, ma soprattutto contro l’indifferenza, l’abbandono e l’esclusione, in un approccio olistico agli eventi patologici. La medicina che fugge dalla sofferenza è illusoria: può illudersi di governare il mondo attraverso il dominio strumentale o l’autoreferenzialità degli operatori, ma non è più umana. E’ una medicina che aumenta i problemi invece di risolverli.

Nell’ideale approccio multidimensionale alla sofferenza dovremmo porre sempre più attenzione alle variabili spirituali e religiose, attivare meccanismi di affiancamento che valgano una carezza, un “prendersi per mano”, non per esplicitare segni di rassegnazione ma per comunicare “forme attive” di intervento. La pastorale della salute ci insegna a lasciar esprimere e saper raccogliere il dolore spirituale della persona, elemento fondamentale del quale la medicina deve occuparsi. Al pari della diagnosi clinica anche la dimensione spirituale richiede una diagnosi specifica, attraverso la capacità di leggere e comprendere la situazione del malato, interpretando i molteplici segni espliciti ed impliciti con cui egli si presenta e che diventano oggetto di osservazione da parte di chi vive una relazione spirituale di aiuto.Non si tratta per chi è accanto di svolgere un’azione tesa a ricondurre il sofferente alla visione valoriale o religiosa. Chi consiglia, chi è terapeuta dovrebbe imporsi, dopo un’attenta diagnosi, di individuare quali siano le capacità di resilienza del sofferente per rinforzare la sua capacità di risalire la china, forse anche un calvario, avendo come carburante la biografia spirituale di chi viene aiutato.

Comprendere il dolore spirituale è vera compassione, sentimento che può infatti stimolare splendide sensibilità! Se si parte dalla lettura integrale dei bisogni dei pazienti, forse si diventa più inclini a chiarificare le scelte cliniche ed etiche che si compiono in tutti i più difficili percorsi terapeutici, con e per la persona malata, anche di fronte alle attuali questioni riguardo alla proporzionalità terapeutica, che si richiede di ben definire per poterla poi ben distinguere dall’accanimento terapeutico, orientandosi all’eubiosia piuttosto che all’eutanasia.

Il medico deve essere l’attore principale di un dialogo, che significa non fare chiacchiere o discorsi evasivi: il prefisso “dia” rimanda al crocevia delle parole scambiate, ad un generale accogliere il dono che sta per arrivare, il “logos” è il senso di ciò che si vive, di quello che si scambia, di quello che si realizzain ogni atto comunicativo interpersonale. Smettiamo di considerare il tempo come variabile economica: devo fare dieci elettrocardiogrammi in un’ora e questo tempismo ci costringe ad imbastire con legacci profondi le labbra per non esprimere nessuna parola che possa dare il senso di un colloquio.

Ma ilnostro dialogo essenziale è riferito solo ai pazienti o deve avvenire anche con i familiari?

C’è una mediazione con i familiari?

E’ opportuna la mediazione con i familiari di un degente può rappresentare un elemento supplementare che di rimando va ad offrire un supporto allo stress emotivo proprio di coloro che da operatori vivono con responsabilità umana e professionale, all’interno delle molteplici situazioni critiche e complesse, quali quelle della malattia.

C’è una vena di inquietudine che non cessa di scorrere dentro gli atti medici di ciascun operatore sanitario. Essa riporta indubbiamente alle risorse spirituali personali, risorse che ci fanno del bene e ci ristorano, come un fiume carsico quando affiora in superficie prima di ritornare nelle profondità.

Domani saremo in preghiera all’interno dell’hospice: proprio in quella sede occorre utilizzare tutti i nostri 5 sensi. Ancora, occorre saper cogliere il dolore nella sua complessità; compiere atti di luce, di grande misericordia, intreccio di competenze, di cura, di sensibilità, di comprensione, di vicinanza, percorsi che possono diventare occasione sia per gli operatori sanitari che per gli assistenti religiosi di riscrivere il capitolo della “care”, del prendersi cura, e non solo. Ma anche per quanti, familiari ed amici, sono al capezzale di chi soffre: occorre saper trovare tempo per trasmettere valori e misericordia. E allora, adoperiamoci affinchè non vi sia mai più fretta!

Occorre prestare attenzione a tutti gli interrogativi che salgono dalla propria interiorità, fortemente intrisa di emozioni e di spiritualità, perfettamente consci che ogni altalenante emozione necessita di competenze, ma pretende segni tangibili di misericordia: la luce della misericordia è luce della cura integrata che illumina tutti, pazienti, medici e operatori sanitari.

Carissimi tutti, siate voi luce: ascolto, cura, conforto degli ammalati! Non importa se intorno a voi vi è il buio. Iniziate voi ad illuminare. Siate fiaccole nel buio della sofferenza. Siate luce di quella carità che ci orienta a promuovere ogni servizio di gratuità, utilizzate parole nuove per la sofferenza.

*Presidente Associazione Medici Cattolici Italiani