30 gennaio 2021

Continuano a riproporsi nella cronaca internazionale casi drammatici di persone in condizioni critiche, ma non terminali, che, in seguito alle decisioni dei medici e dei tribunali, e contro il parere della famiglia, subiscono la sospensione di nutrizione e idratazione. Muoiono per mancanza di alimentazione e liquidi. Dunque, non a causa di una condizione patologica terminale, che giunge al suo compimento naturale, ma in seguito ad un protocollo clinico, ad una legge o a una sentenza, che decreta anticipatamente la morte in base a presunte valutazioni, adottate nel “miglior interesse” del paziente, ormai incosciente: tra queste, la presenza/assenza di condizioni che non renderebbero più la vita degna di essere vissuta, o utile, desiderabile, conveniente, per sé stesso o per gli altri. E chissà quanti casi restano nel silenzio e nel dolore delle famiglie senza essere denunciati.

Eppure, principio fondamentale della medicina nell’accompagnamento di ogni malato in condizioni critiche e/o terminali è la continuità dell’assistenza, ossia la garanzia di un progetto di cura, che si fa espressione della «missione di fedele custodia della vita umana fino al suo compiersi naturale» (Samaritanus bonus), affidata ad ogni operatore sanitario. Un principio che appartiene non solo alla scienza medica, ma anche ad ogni Stato di diritto, poiché è implicito nel diritto alla vita e alla salute, di cui sono intrisi gli ordinamenti contemporanei.

Sopprimere le persone avvalendosi del diritto, ossia di quello strumento che, per eccellenza, dovrebbe difendere la vita di ciascuno, affinché l’io e il tu possano esistere l’uno accanto all’altro, è l’effetto di quella “deriva eutanasica” di cui la Congregazione per la dottrina della fede ha parlato con solenne chiarezza nella recente Lettera Samaritanus bonus. È il risultato di quella “cultura dello scarto” nei confronti delle persone più fragili e nel nome di un efficientismo delle strutture sanitarie, che rendono la medicina prima, e il diritto poi, strumenti tiranni. Si usano in maniera equivoca concetti come “morte degna”, compassione, “miglior interesse”, andando perfino alla ricerca, nelle decisioni giudiziarie, di un qualche barlume di “permesso-consenso” del paziente a morire anticipatamente, come se ciò bastasse a giustificare un’insolita decisione di sopprimere una vita umana. L’uomo fragile accudito in virtù di un favor — si legge nella Samaritanus bonus — solo se previsto dalla legge, dalla sentenza, o dal protocollo.

Ma la Chiesa lo ribadisce con forza: «Alimentazione e idratazione non costituiscono una terapia medica […] ma rappresentano una cura dovuta alla persona del paziente, un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile», anche qualora esigesse «una via di somministrazione artificiale» (Samaritanus bonus). La sua obbligatorietà si pone «nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». Esse perciò non possono essere sospese in virtù di criteri estrinseci al bene oggettivo e clinico del paziente. La continuità dell’assistenza alle funzioni fisiologiche essenziali di qualsiasi soggetto in condizioni critiche è una cura vitale dovuta ad ogni uomo, la cui privazione costituisce un’azione sommamente ingiusta. Sospendere tali cure anticipatamente non è solo una chiara forma di abbandono del paziente, contraria ad ogni principio deontologico, ma è equiparabile all’eutanasia, poiché seppur in forma omissiva, comporta la morte del soggetto. Una morte provocata intenzionalmente da chi dovrebbe prendersi cura di lui.

«Il valore inviolabile della vita umana — si legge nella Samaritanus bonus — è una verità basilare della legge morale naturale», che esprime la nostra comune umanità e fragilità, e «un fondamento essenziale dell’ordine giuridico».

Di fronte ad una prospettiva così pericolosamente utilitarista, è ora di rimettere seriamente in discussione il modo in cui stiamo applicando il sapere. E non si tratta solo di ripensare il significato epistemologico della medicina a partire da quella com-passione, che dovrebbe muovere i medici a stare-con il malato, vicino, senza paura della morte e della sofferenza; ma nelle nostre società, dove il paradigma del diritto (e dei diritti) domina ogni dimensione del vivere comune, è urgente ripensare alla funzione del diritto, a quella caratteristica freddezza che gli appartiene intrinsecamente (come spiegava Giuseppe Capograssi), che tecnicamente non serve a difendere l’agente, ma solo l’azione. Per questo, dopo Norimberga, siamo entrati nell’era dei diritti umani: per rimettere al centro l’uomo con la sua inviolabile dignità e la preziosità della sua vita. Eppure oggi, svuotata di ogni valore e appoggiata su un principio di ragionevolezza apparente delle argomentazioni dei giudici, la scienza giuridica si sta trasformando in uno strumento gelido, che toglie ogni speranza non solo a chi avrebbe ancora diritto di vivere, ma anche al dolore della famiglia. Non si può, infatti, rimanere indifferenti di fronte alla profonda mancanza di rispetto che queste decisioni esprimono nei confronti di coloro che credono nella vicinanza di Dio nei momenti di maggior prova della vita, che confidano nel fatto di poter percorrere quell’ultimo tratto di Calvario accanto alla persona amata, sapendo che in Cristo può farsi cammino di grazia e di Amore. Il rispetto della libertà religiosa implica il diritto di avere speranza, di vedere rispettata la propria fede cristiana nel comandamento del non uccidere. Di questo lo Stato di diritto deve tenere conto. La verità è che la pienezza della legge è davvero l’amore e che la giustizia senza misericordia diviene “summa iniuria”. Il diritto, per rimanere tale, deve essere segno dell’ordine derivante dalla misericordia di Dio, poiché la giustizia non si esaurisce in sé stessa, ma si compie pienamente in Dio, di fronte a Lui e nell’azione misericordiosa dell’uomo verso gli altri uomini. Solo la misericordia impedisce che ciò che è oggettivamente falso o sbagliato possa diventare soggettivamente giusto. Se riuscissimo a comprendere e a vivere questa verità, scopriremmo anche che la misericordia non è mai un atto unilaterale e paternalistico, come a dire una concessione che si fa all’altro, bensì l’unica possibilità di una vera reciprocità inclusiva, capace di modificare l’ordine della realtà in colui che è misericordioso, prima ancora che in colui che riceve misericordia. Il Buon Samaritano è colui che percepisce che la misericordia opera su di lui prima che sul forestiero, facendogli fare l’esperienza sconvolgente dell’Amore di Dio e della sua tenerezza, un’esperienza così forte da fargli desiderare di farsi prossimo.

Solo il calore della misericordia potrà forse restituire umanità al gelido diritto della post-modernità. In questo vogliamo tutti sperare. La Chiesa non smetterà mai di ripeterlo.

di Gabriella Gambino
Sotto-Segretario, Dicastero per i laici la famiglia e la vita

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La nutrición y la hidratación, cuidados debidos a la persona del paciente

por Gabriella Gambino, subsecretaria del Dicasterio para los Laicos, la Familia y la Vida, doctora en Bioética; publicado en L’Osservatore Romano (traducción de VaticanNews)

Siguen apareciendo en las noticias internacionales casos dramáticos de personas en estado crítico, pero no terminal, que, tras las decisiones de los médicos y los tribunales, y contra el parecer de la familia, sufren la suspensión de la nutrición y la hidratación.

Mueren por falta de alimentación y líquidos. No por una condición patológica terminal, que llega a su fin natural, sino siguiendo un protocolo clínico, una ley o una sentencia, que decreta la muerte por adelantado sobre la base de supuestas valoraciones, adoptadas en el “mejor interés” del paciente, actualmente inconsciente: entre ellas, la presencia / ausencia de condiciones que ya no harían la vida digna de ser vivida, o útil, deseable, conveniente, para sí mismo o para los demás.

Y quién sabe cuántos casos permanecen en silencio y en el dolor de las familias sin ser denunciados.

Sin embargo, el principio fundamental de la medicina en el acompañamiento de todo enfermo en estado crítico y/o terminal es la continuidad de la asistencia, es decir, la garantía de un proyecto de curación, que se convierte en la expresión de la ” la misión de una fiel custodia de la vida humana hasta su cumplimiento natural” (Samaritanus Bonus), confiada a todo agente sanitario.

Se trata de un principio que pertenece no sólo a la ciencia médica, sino también a todo Estado de Derecho, ya que está implícito en el derecho a la vida y a la salud, del que están imbuidos los sistemas jurídicos contemporáneos.

La supresión de las personas mediante el uso del derecho, es decir, de ese instrumento que, por excelencia, debería defender la vida de cada persona, para que el “yo” y el “tú” puedan existir uno al lado del otro, es el efecto de esa deriva hacia la eutanasia de la que habló con solemne claridad la Congregación para la Doctrina de la Fe en su reciente Carta Samaritanus Bonus.

Es el resultado de esa “cultura del descarte” con respecto a las personas más frágiles y en nombre de la eficacia de las estructuras sanitarias, que hace de la medicina, primero, y del derecho, después, instrumentos tiránicos.

Conceptos como “muerte digna”, compasión, “interés superior” se utilizan de forma equívoca, yendo incluso a buscar, en las decisiones judiciales, algún atisbo de “permiso-consentimiento” del paciente a morir de forma anticipada, como si esto fuera suficiente para justificar una decisión insólita de suprimir una vida humana. El hombre frágil cuidado “en virtud de un favor”, se lee en la Samaritanus Bonus, sólo si está previsto por ley, por sentencia o por protocolo.

Pero la Iglesia lo reafirma con fuerza: “alimentación y la hidratación no constituyen un tratamiento médico […] sino que representan el cuidado debido a la persona del paciente, una atención clínica y humana primaria e ineludible”, aunque requiera “una vía de administración artificial” (Samaritanus Bonus). Su obligatoriedad surge “en la medida en que y hasta cuando esta administración demuestre alcanzar su finalidad propia, que consiste en el procurar la hidratación y la nutrición del paciente”.

Por consiguiente, no pueden suspenderse en virtud de criterios extrínsecos al bien objetivo y clínico del paciente. La continuidad de la asistencia a las funciones fisiológicas esenciales de cualquier sujeto en condiciones críticas es un cuidado vital debido a todo hombre, cuya privación constituye una acción extremadamente injusta.

Suspender prematuramente esos cuidados no sólo es una forma clara de abandono del paciente, contraria a todo principio deontológico, sino que es equiparable a la eutanasia, ya que, aunque sea de forma omisiva, implica la muerte del sujeto. Una muerte provocada intencionalmente por quienes deberían cuidarlo.

“El valor inviolable de la vida – se lee en la Samaritanus Bonus -es una verdad básica de la ley moral natural”, que expresa nuestra común humanidad y fragilidad, y es “un fundamento esencial del ordenamiento jurídico”.

Ante una perspectiva tan peligrosamente utilitarista, es hora de cuestionar seriamente la forma en que estamos aplicando el conocimiento. Y no se trata sólo de repensar el significado epistemológico de la medicina a partir de esa com-pasión, que debería mover a los médicos a estar-con el enfermo, cerca de él, sin miedo a la muerte y al sufrimiento; sino que en nuestras sociedades, donde el paradigma del derecho (y de los derechos) domina cada dimensión del vivir común, urge repensar la función del derecho, esa frialdad característica que le pertenece intrínsecamente (como explicaba Giuseppe Capograssi), que técnicamente no sirve para defender al agente, sino sólo a la acción.

Por eso, después de Núremberg, hemos entrado en la era de los derechos humanos: para volver a poner al hombre en el centro con su dignidad inviolable y la preciosidad de su vida.

Sin embargo, hoy en día, vaciada de todo valor y apoyada en un principio de aparente razonabilidad de los argumentos de los jueces, la ciencia jurídica se está convirtiendo en un instrumento gélido, que quita toda esperanza no sólo a los que todavía tendrían derecho a vivir, sino también al dolor de la familia.

En efecto, no se puede permanecer indiferentes ante la profunda falta de respeto que estas decisiones expresan hacia aquellos que creen en la cercanía de Dios en los momentos de mayor prueba de la vida, que confían en que pueden recorrer ese último tramo del Calvario al lado de la persona amada, sabiendo que en Cristo se puede hacer camino por la gracia y el Amor.

El respeto a la libertad religiosa implica el derecho a tener esperanza, a ver respetada la propia fe cristiana en el mandamiento de no matar. El Estado de Derecho debe tenerlo en cuenta.

La verdad es que la plenitud de la ley es realmente el amor y que la justicia sin misericordia se convierte en “summa iniuria”. Para seguir siendo tal, el derecho debe ser signo del orden que deriva de la misericordia de Dios, ya que la justicia no se agota en sí misma, sino que se realiza plenamente en Dios, ante Él y en la acción misericordiosa del hombre hacia los demás hombres.

Sólo la misericordia impide que lo que es objetivamente falso o equivocado se convierta en subjetivamente correcto. Si fuéramos capaces de comprender y vivir esta verdad, descubriríamos también que la misericordia no es nunca un acto unilateral y paternalista, como si fuera una concesión hecha al otro, sino la única posibilidad de una reciprocidad verdaderamente inclusiva, capaz de modificar el orden de la realidad en aquel que es misericordioso, incluso antes que en aquel que recibe la misericordia.

El Buen Samaritano es aquel que percibe que la misericordia actúa sobre él antes que, sobre el forastero, haciéndole tener la experiencia sobrecogedora del Amor de Dios y de su ternura, una experiencia tan fuerte que le hace desear hacerse cercano.

Sólo el calor de la misericordia podrá tal vez restituir humanidad al gélido derecho de la posmodernidad. En esto queremos esperar todos. La Iglesia nunca dejará de repetirlo.