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Il nostro impegno nei confronti della disabilità e all’altezza del nostro sbandierato rispetto per la vita? Pubblichiamo una riflessione sul tema tratta dall’ultimo numero del bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, «Vita e Pensiero»

(Pierangelo Sequeri) La notizia di una fatwa dell’Is per l’eliminazione dei figli disabili, con una indicazione specifica per i bambini Down, ha fatto il giro del mondo, suscitando riprovazioni unanimi e riflessioni minime. La “notizia” rimane avvolta in un alone di incertezza, in attesa di documentazioni e conferme più specifiche a riguardo della sua reale formulazione ed esecuzione. Il tenore delle reazioni, nel mondo occidentale, evoca inevitabilmente la comparazione con le pratiche naziste ispirate all’eugenetica.

La “notizia” appare molto funzionale all’immagine del nuovo terrorismo di Stato esibito dal sedicente Califfato islamico, e si lascia inquadrare agevolmente fra gli argomenti destinati a consolidare lo sdegno e l’orrore per il suo modo così diretto, perentorio e brutale, di praticare il disprezzo della vita umana. L’eventualità di una simile disposizione, al di là della sua conferma, sembra un’estensione verosimile del modus operandi di questo nuovo regime del Terrore, che non conosce la pietà: né umana, né religiosa. Nelle manifestazioni della sua stessa propaganda questo regime sembra infatti rivolto a contestare il diritto alla vita di tutti coloro la cui esistenza appare un ostacolo per la guerra “santa” e/o un’offesa per la purezza della comunità dei “veri” credenti.

Nei fatti, la reazione occidentale è così sbilanciata verso l’implementazione del dossier degli orrori in cui Daesh deve essere confermato, che la sostanza dell’argomento finisce per rimanere molto estrinseca alla nostra riflessione sull’argomento. Certo, l’astuta propaganda di Daesh non lascia nulla di intentato per alimentare il suo terrore e il nostro orrore. Ma anche la regìa dei nostri media segue il suomainstream.

Nella sostanza infatti, e al di fuori di quel contesto, possiamo dire che il nostro impegno nei confronti della disabilità e della vulnerabilità sia all’altezza del nostro enfatizzato rispetto per la vita e per la persona? Possiamo affermare che il confine tra la prevenzione terapeutica e la mentalità eugenetica sia così saldamente presidiato da inchiodare agli orrori irripetibili del nostro recente passato ogni possibile ritorno? Abbiamo combattuto per molti decenni una sacrosanta battaglia contro gli eccessi del “pietismo”, che aggiungeva alle ferite della disabilità l’umiliazione di una sterile commiserazione. Bene. Non sentiamo forse risuonare, tra le righe della nostra esaltazione del benessere totale, la musica di una “pietosa” eliminazione dell’handicappato, che dissimula sotto il velo di una compassionevole soluzione finale — o piuttosto preventiva — il cinismo di un’ottimizzazione del godimento della vita che non vuole essere disturbato neppure dalla vista dell’imperfezione che non corrisponde allo standard?

La nostra propaganda, certo, è più smaliziata. Intanto, essa mira a interiorizzare compassionevolmente la soluzione radicale, con accorti giochi di parole. L’interiorizzazione, si badi bene, funziona anche dalla parte delle vittime (che, in certo modo, siamo potenzialmente anche noi, i nostri nonni e i nostri figli). Il vecchio pregiudizio faceva sentire oscuramente colpevoli (i nostri genitori o noi stessi) di essere disabili. Il nuovo pregiudizio ci suggerisce di sentirci colpevoli anche di voler vivere.

Non è forse cresciuta, incoraggiata da questo sguardo clinicamente preventivo, che ammicca tacitamente alla nostra responsabilità, la nostra angoscia per il peso — psichico, sociale, economico — che la volontà di vivere dell’essere umano molto malato e molto incapace impone alla comunità? Non veniamo sottilmente indotti a firmare in anticipo, per conto dei responsabili della comunità dei sani, le nostre volontarie dimissioni da una vita malata che venga giudicata priva di valore per loro e priva di dignità per noi?

Nel novembre del 2000, la Corte di Cassazione francese, riunita in assemblea plenaria, ha deliberato il caso di Nicolas Perruche, afflitto da irreversibili disfunzioni riconducibili alla rosolia cui fu esposta la madre durante la gravidanza. La causa di risarcimento era stata intentata a fronte della singolare istanza di un “diritto a non nascere” colpevolmente negato al figlio. I legali dei genitori, infatti, hanno impostato la causa in questi termini sulla base della dichiarazione della madre, che sostiene di essere stata indotta a proseguire la gravidanza da una diagnosi erroneamente rassicurante: in caso di prognosi infausta, infatti, avrebbe certamente abortito, sottraendo così il figlio al danno permanente che gli è derivato dal fatto di essere venuto al mondo e costretto perciò a vivere nella menomazione. La Corte ha cercato di stabilire un nesso di causalità fra le menomazioni del ragazzo e l’errore medico che avrebbe impedito l’aborto terapeutico, tenendo però rigorosamente distinto questo profilo dell’eventuale diritto al risarcimento dalla possibilità di riconoscere come causa giuridica del danno l’atto di far nascere il figlio: offrendo così legittimazione all’abnorme figura giuridica di un “diritto a non nascere”. Posta in questi termini, la distinzione rimane comunque intricata.

Essa solleva il velo sulla soglia, per lo più dissimulata, che separa (e congiunge) il diritto dell’aborto terapeutico e il dovere di non far nascere malati. Il riconoscimento del dovere di non far nascere non implicherebbe per ciò stesso il riconoscimento di un corrispondente diritto a non nascere? Di più, questa impostazione apre anche il tema di una imputabilità genitoriale del far nascere, come atto di costrizione sottratto alla mia libera scelta, nel caso in cui io abbia motivi per rifiutare, con scelta deliberata e consapevole, la vita inaccettabile alla quale sono stato esposto. Qual è il confine tra il diritto di abortire per motivi precauzionali e il dovere di non far nascere in condizioni di rischio? Il concetto di prevenzione e di rischio, a fronte degli enormi sviluppi dello screening genetico, al quale sono già molto interessate le agenzie assicurative, assume ora una prospettiva che si allontana sensibilmente dai casi-limite di senso comune (per dir così).

Un caso analogo si è recentemente verificato in Italia, dove la Corte di Cassazione ha condannato un ginecologo di Treviso al risarcimento nei confronti di una bambina nata nel 1996 con la Trisomia 21, per non aver predisposto l’amniocentesi, a fronte della dichiarata disposizione della madre ad abortire in caso di malformazioni. La sentenza dispone il risarcimento anche nei confronti della figlia, pur avendo cura di precisare che il diritto al risarcimento non viene disposto a fronte di una titolarità del nascituro, in quanto tale non soggetto di diritti, ma della figlia effettivamente nata. Una figura singolare del diritto: la titolarità del diritto di non nascere è inesistente per il concepito, ma viene indirettamente riconosciuta una volta che si è nati. Tornando al caso francese, nel dicembre dello stesso anno 2000, il deputato Jean-François Mattei ha proposto all’Assemblea nazionale un emendamento all’articolo 15 del Codice civile che stabilisce chiaramente una barriera invalicabile tra le due figure: «La vita costituisce il bene essenziale di ogni essere umano, nessuno ha titolo di avanzare richiesta di risarcimento per il fatto di essere nato. Nel caso in cui un handicap sia la conseguenza diretta di una colpa e non della natura, si ha pieno diritto al risarcimento secondo i termini previsti dall’art. 1382 del presente Codice». La puntualizzazione ha il merito di restituire l’evidenza della netta distinzione fra i due principi, pur rimanendo nella cornice della problematica del risarcimento. Non sorprende dunque che la discussione rimanga molto viva e che le implicazioni antropologiche portate in campo dalla radicalizzazione giuridica del tema appaiano allo scoperto.

Un vantaggio, sotto certi aspetti. Ma anche un varco irrimarginabile aperto sullo scarto fra l’imperturbabile retorica umanistica della lingua corrente e il drammatico vuoto di affezione riflessiva che accompagna l’evoluzione tecnologica applicata alla condizione umana. Lo scarto viene ora allo scoperto, rivelando il grave ritardo con il quale proprio l’intellettuale europeo — l’inventore dei diritti dell’uomo — si rivolge ai grandi temi della condizione umana, dopo decenni di istupidimento di fronte agli effetti di incantamento prodotti dalla credenza in un automatico allineamento della tecnica e dell’etica, a vantaggio di una risolutiva capacità di responsabilità e di dominio del proprio destino.

Di certo, abbiamo posto pilastri fondamentali per la tutela della dignità della persona e del diritto alla cura. Ma ora che siamo nella disponibilità di inedite facoltà di manipolazione della nascita (e della morte) dei singoli e della collettività, siamo condotti alla soglia di interrogativi che ci impongono di fare i conti con la contraddizione dei nostri stessi principi. Non sono domande prodotte dalla nostra coscienza morale: sono domande che la sfidano. Riconoscerci impreparati alla profondità della riflessione sui fini dell’umano agire, di cui dovremmo disporre, sarebbe un inizio migliore, in luogo della presunzione di poter chiudere l’argomento con una decisione che si lascia guidare dai mezzi che ci consentono di eliminare semplicemente il problema. Da quanto tempo non sfidiamo più noi stessi, misurandoci seriamente sulla necessità di rimanere umani anche nella nostra impotenza, invece che sul nostro potere di creare e distruggere, al quale l’essere-umani dovrà adattarsi?

Da quanto tempo non dedichiamo il nostro impegno alle ragioni d’onore degli affetti più sacri e più cari, la cui grandezza risplende nella nostra determinazione a non tradirli anche nelle condizioni estreme? Da quanto tempo il nostro inconscio ha incominciato ad allucinare la morale superiorità di pratiche più scientifiche ed efficienti di selezione legittima delle vite buone e meritevoli di essere vissute?

La drammatica della condizione umana, con le sue acuminate punte di tragico oscuramento del senso stesso del nascere, non è certo un’invenzione moderna. Da Sofocle a Giobbe, da Schopenhauer a Kafka, il “delitto” di essere venuti al mondo, la “disgrazia” assoluta di essere nati ci trafiggono come cifra dell’eccesso della disperazione che invoca l’impossibile annullamento dell’esistenza. Non è la morte che è invocata, qui, quanto piuttosto la contraddizione di una vita che non è all’altezza della sua promessa. Ma quale vita lo è? Quale essere umano può vivere senza soffrire e dunque, senza patire la vita?
Dove apprende, l’essere umano, della possibilità di una vita in cui l’amore non sia esposto all’impotenza e alla contraddizione? Non certo in questa vita, in questo mondo, in questa storia. In questa vita, semmai, gli umani apprendono la miracolosa occorrenza delle infinite volte in cui l’amore riesce ad abitare anche l’impotenza e la contraddizione, a sfidare il dolore e il fallimento, a perforare il buco nero della disperazione e la dura scorza della prevaricazione. Il miracolo che ci sia amore, e spesso puro e inscalfibile come il diamante, anche nel sacrificio. Che ci sia riconoscimento e affezione anche per l’essere ferito e vulnerabile — e la natura e la cultura pensino quello che vogliono — questo è il miracolo. E tiene in vita il mondo. Enigma? Certo. Ma non pura eccezione, come il cinismo dei teoremi utilitaristici vorrebbe.

L’Osservatore Romano, 29 maggio 2016

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