Conferenza di apertura del XXIV Corso di Dottrina sociale della Chiesa

Nel 50mo anniversario della “Populorum progressio”

Fundación Pablo VI – Madrid

14 settembre 2017

— La Tecnologia al servizio dello Sviluppo umano nella prospettiva della Populorum progressio—

Flaminia Giovanelli

Sottosegretario del Dicastero pontificio

per lo sviluppo umano integrale

Ringrazio di cuore per questo nuovo invito, della quale mi sento molto onorata, ad aprire il corso di dottrina sociale della Fundación Pablo VI e in modo particolare Sua Eccellenza Mons. Alfonso Milián Sorribas e il caro amico Mons. Fernando Fuente Alcantara. Si tratta di un invito doppiamente gradito per l’opportunità di venire a Madrid e per quella di ragionare e riflettere su di un tema sensibile, complesso e decisamente attuale.

Due considerazioni introduttive a sfondo dell’esposizione
Vorrei iniziare con due considerazioni che mi sembra possano fare da sfondo allo svolgimento del tema di cui mi è stato chiesto di parlare.

Mantenere il senso di gratuità di fronte all’ambivalenza della tecnica.

Le parole dell’enciclica del Beato Paolo VI cui fa riferimento l’oggetto della mia presentazione, e che dicono così, “economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo ch’esse devono servire”[1], mi spingono a riflettere sul senso del servire, del servizio, non potendo non notarvi una certa ambivalenza. Da una parte, si può considerare che il servire, il servizio, abbia una connotazione, per così dire, “spirituale” – è il senso, ad esempio, del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale – e qui l’elemento della gratuità, del disinteresse, aggiungerei, è evidente. Dall’altra parte, mettendo in rapporto il servire con la tecnica, con lo strumento, che è la caratteristica della tecnica, il concetto assume una connotazione “neutra” che, però, può diventare addirittura negativa. Questo, quando si pensa che ci si può servire di qualcosa, di uno strumento, anche per compiere scelte o azioni non buone, oppure ci si può servire di qualcuno come se fosse uno strumento, e si parla, allora, di strumentalizzare o strumentalizzazione di qualcuno.

Bene, rilevando che questa ambivalenza è caratteristica anche della tecnica, che, in sé non è né buona né cattiva, non dico niente di nuovo[2]. Vorrei però aggiungere che senza considerare la gratuità, la gratuità del servire, non solo non può funzionare l’economia, il mercato, come affermava il Papa Emerito nella Caritas in veritate[3], ma neanche la tecnica funziona perché rischia di trasformarsi in uno strumento di distruzione dell’uomo. L’esigenza di mantenere una quota di gratuità nella tecnica, mi sembra sia un modo per riaffermare, in altri termini, la necessità della priorità dell’etica sulla tecnica stessa, del primato della persona sulle cose, della superiorità dello spirito sulla materia[4]. Questa esigenza veniva espressa in modo particolarmente vivo da San Giovanni Paolo II quando, nella sua enciclica programmatica, affermava che “esiste già un reale e percettibile pericolo che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme, anche se spesso non direttamente percettibile, manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria, mediante il sistema di produzione, mediante la pressione dei mezzi di comunicazione sociale”[5].

La seconda considerazione. Questo pericolo, di cui scriveva Giovanni Paolo II, costituisce certamente una minaccia, ma non costituisce il quadro definitivo, specialmente nella visione cristiana che è quella della speranza, anche se, bisogna ammetterlo, i cristiani, in dialogo con la modernità, devono imparare nuovamente in che cosa consista veramente la loro speranza, che cosa abbiano da offrire al mondo e che cosa invece non possano offrire[6].

In questa visione, la ragione e la libertà, che sono i grandi doni di Dio all’umanità e al contempo categorie al centro del progresso, devono essere integrate dalla loro apertura alla fede e al discernimento fra il bene e il male. Per i cristiani, una ragione diventa veramente umana “solo se è in grado di indicare la strada alla volontà, e di questo è capace solo se guarda oltre se stessa”[7]. E così, “la libertà umana richiede sempre un concorso di varie libertà. Questo concorso, tuttavia, non può riuscire, se non è determinato da un comune intrinseco criterio di misura, che è fondamento e meta della nostra libertà. Diciamolo ora in modo molto semplice: l’uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza”[8]. Dunque, un ricorso alle categorie del progresso, ragione e libertà, che guardi però oltre alle stesse è l’unica garanzia dall’asservimento dell’uomo agli strumenti tecnici del progresso e l’unico modo per inquadrare l’agire umano nella prospettiva della speranza. Quella speranza che ci consente di affrontare il presente – anche un presente faticoso, rischioso, minacciato dall’ambivalenza della tecnica -, descritta in modo tanto poetico da Papa Francesco nella Laudato si’ quando afferma che : “l’autentica umanità … sembra abitare in mezzo alla civiltà tecnologica, quasi impercettibilmente, come la nebbia che filtra sotto una porta chiusa. Sarà – si chiede il Papa – una promessa permanente, nonostante tutto, che sboccia come un’ostinata resistenza di ciò che è autentico?”[9]

La tecnica al servizio dello sviluppo per tutti
Come è risaputo, la Populorum progressio venne scritta in un tempo di accelerata decolonizzazione e in un mondo che si apriva sempre più alle forti istanze di giustizia dei Paesi del Sud del mondo. In questo contesto, l’enciclica di Paolo VI è il primo documento del magistero che si occupa della problematica dello sviluppo, visto come la riedizione su scala planetaria della questione sociale, ponendo la Chiesa non più al di sopra delle parti, ma decisamente dalla parte dei deboli, cioè dei paesi in via di sviluppo[10] .

Una delle espressioni più conosciute della Populorum progressio, i cui 87 punti sono brevi, espressi in modo lapidario, e di rara efficacia[11], è la seguente: “Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”[12].

Di ogni uomo: se l’uomo (e la donna!) è uguale da per tutto, è fin troppo ovvio rilevare che le situazioni in cui vive sono differenti. Forse non è male, però, tenere presente questa considerazione per l’impatto che essa ha sulla questione delle tecnologie. Basti pensare al fatto che alcune tecnologie che nei Paesi ricchi sarebbero considerate obsolete, nei Paesi poveri costituiscono preziosi strumenti di sviluppo. Ma non solo, questa considerazione è anche la base per una serie di constatazioni e induce a rilevare, in certi casi, dei paradossi e delle contraddizioni.

Ad esempio, se la conseguenza più vistosa del fenomeno della globalizzazione è, ovunque, l’aumento delle disuguaglianze, è anche vero che la tecnologia, mentre contribuisce a farle aumentare, aiuta anche a farle diminuire, all’interno dei paesi, ma anche, e soprattutto, fra i paesi.

Inoltre, fra sviluppo umano e tecnologia si stabilisce un circolo virtuoso che funziona nei due sensi. Infatti, se l’innovazione tecnologica favorisce lo sviluppo umano e la crescita economica, accrescendo la produttività degli operai e l’efficienza dei fornitori di servizi e delle piccole aziende, lo sviluppo umano, a sua volta, è un importante strumento per lo sviluppo della tecnologia, che è espressione del potenziale umano, della creatività umana.

Vorrei portare, a sostegno di questa constatazione, l’esempio della diffusione dei telefoni cellulari nel Continente africano perché mi consente di evidenziare, accanto a vistosi paradossi, l’esempio di una buona pratica che dimostra la vicendevole influenza positiva fra tecnologia e sviluppo umano.

In Africa, la diffusione dei telefoni cellulari è altissima: secondo i dati della Banca Mondiale, nel 2012 il mercato della telefonia mobile vi era superiore sia a quello degli Stati Uniti che dell’Europa raggiungendo, cinque anni fa, i 650 milioni di sottoscrizioni (una crescita solo di poco inferiore a quella dei Paesi asiatici). E qui si possono rilevare un paradosso e una considerazione. Il paradosso: la diffusione su così larga scala di uno strumento altamente tecnologico in Paesi in cui, non solo mancano linee di telefonia, ma in vaste zone, specialmente rurali, manca il cibo, l’acqua, l’elettricità. Ho visto io stessa, anche l’anno scorso, in Mozambico, le persone costrette a farsi luce con le candele e più spesso con i cellulari e, questo, anche a pochi chilometri da una centrale idroelettrica che è la seconda, per importanza, di tutta l’Africa. La considerazione: il possesso dei materiali necessari per la costruzione dei cellulari costituisce allo stesso tempo una benedizione e una maledizione per tanti Paesi africani. Sappiamo quali sono le conseguenze dello sfruttamento delle miniere di coltan, ad esempio in Congo, dove vi lavorano, per compensi irrisori, in condizioni fisiche e morali offensive di ogni dignità umana, bambini, donne e uomini, per non parlare delle violenze, delle guerre e del deterioramento dell’ambiente che comporta questa “corsa al coltan”. Benché ultimamente, anche grazie ai media[13], la situazione cominci ad essere conosciuta, i risultati delle iniziative, prese principalmente della società civile (alcune aziende, ong), restano pur sempre marginali. Lo stesso discorso si può fare per altri minerali, come, ad esempio, il rame, che è il materiale più usato nei sistemi di telecomunicazioni e che costituisce la base dell’economia di Paesi come lo Zambia[14] oppure il Perù dove il minerale rappresenta una grazia oppure una disgrazia a seconda delle oscillazioni del suo prezzo sul mercato internazionale.

Ma torniamo all’esempio del telefono cellulare: questo strumento della comunicazione, che in Occidente è a volte la disperazione dei genitori (tanto da indurre Papa Francesco a raccomandare di spegnerlo, almeno a tavola![15]), in Ghana, dove ha un tasso di penetrazione superiore a quello di Francia e Spagna (113 linee mobili ogni 100 abitanti), ha dato vita a quel circolo virtuoso di cui dicevo prima. Basandosi, appunto, sull’enorme diffusione dei cellulari, due giovani universitari fondano, nel 2013 una società, la Farmerline, con lo scopo di aiutare gli agricoltori a migliorare la produzione, fornendo loro, proprio attraverso i telefonini, informazioni sulla semina e il raccolto, sulle condizioni meteorologiche, sui prezzi all’ingrosso ed offrendo loro anche consigli finanziari. L’idea iniziale, per la verità, era quella di mandare sms, ma poi, nel giro di pochi mesi, i giovani si accorsero che in un Paese dove l’analfabetismo riguarda ancora il 26% della popolazione adulta, con tassi superiori nelle zone rurali, la strategia doveva essere diversa, per cui hanno cominciato a mandare messaggi vocali, in ognuna delle lingue e dei dialetti locali delle sette regioni ghanesi in cui opera il servizio. Oggi Farmerline ha 200 mila utenti in tutta l’Africa Occidentale[16].

Questo esempio introduce un’altra considerazione: molte innovazioni tecnologiche, specie nei Paesi in via di sviluppo, avvengono nel settore informale e non sono quindi registrate, né tanto meno brevettate. Magari sono quelle che più si adattano alle situazioni locali. E’ anche vero che in questo campo si stanno facendo poderosi passi in avanti grazie alla globalizzazione che permette ad un numero già rilevante di studenti dei Paesi del Sud del mondo di perfezionare gli studi anche nelle grandi Università dei Paesi sviluppati. In questi atenei, questi giovani non solo acquisiscono le conoscenze necessarie al progresso tecnologico – che è un processo cumulativo, per cui un’ampia diffusione di invenzioni più vecchie è necessaria per l’adozione di quelle più recenti -, ma anche la capacità di far conoscere i risultati della loro creatività[17].

Malgrado questi miglioramenti, la differenza fra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, rispetto al progresso tecnologico, persiste, vistosa, particolarmente in due campi: quello della percezione dei rischi che ogni innovazione tecnologica comporta e quello sanitario. Riguardo ai rischi, se i Paesi in via di sviluppo, pur non potendo disporre di un apparato di regolamentazione e controllo adeguato, possono avvantaggiarsi dall’osservazione di come i rischi si sono sviluppati nei Paesi dove già si fa uso delle innovazioni, è anche vero che la percezione dei rischi è diversa in contesti diversi. Per fare solo l’esempio del DDT, proibito in Occidente, nei Paesi poveri è ancora uno dei pochi strumenti efficaci e dal costo accessibile per trattare la malaria e viene, quindi, ancora usato in dosi limitate. Insomma, il principio di precauzione non sembra avere una risposta definitiva.

Ma certamente l’ambito in cui le differenze sono più evidenti per uso e disposizione di tecnologie è quello sanitario. Questo, anche se si considera che, comunque, grazie, appunto, alle nuove tecnologie in America Latina e in Asia negli ultimi decenni i miglioramenti sono stati molto più rapidi rispetto a quelli ottenuti in Europa nel XIX secolo. In Africa la situazione è ancora molto difficile e questo, non solo per la scarsità di presidi medici ed ospedali ma anche per la carenza di infrastrutture adeguate che contribuisce a renderli spesso inutili: le frequenti interruzioni di corrente elettrica e generatori inefficienti non consentono ancora, in molti posti, di portare a termine operazioni chirurgiche anche semplici. Questo, per non parlare della disponibilità delle medicine: ancora solo pochi anni fa, quasi 2 miliardi di persone non aveva accesso alla penicillina, e tuttora, non credo la situazione sia cambiata di molto. Vero è che anche nei Paesi sviluppati, si dovette aspettare la II Guerra Mondiale per commercializzare la penicillina benché questo medicinale fosse noto già nel 1928: la domanda di antibiotici era certamente grande in quel lasso di tempo, ma le società farmaceutiche non erano interessate alla produzione perché non costituivano ancora occasione di crescita per il mercato. Insomma, tradurre la tecnologia in strumento per lo sviluppo umano non è affatto facile.

Comunità internazionale e sviluppo
Il fatto è che la questione dello sviluppo è di una estrema complessità, una complessità che è andata progressivamente aumentando dai tempi della Populorum progressio e che necessita di essere affrontata in tutti i suoi aspetti contemporaneamente e a livello globale. L’aspetto dell’interdipendenza è uno di quelli di maggior peso e, in questo ambito, il trasferimento delle tecnologie si rivela di primaria importanza costituendone – come notava San Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei sociali – “uno dei principali problemi”[18].

Del resto, la dimensione dello sviluppo nelle relazioni internazionali è una delle due linee tracciate dalla Populorum progressio[19], evidenziata dall’assioma: lo sviluppo è il nuovo nome della pace [20] e, in realtà, tutta la seconda parte dell’enciclica insiste sull’incoraggiamento verso lo sviluppo solidale dell’umanità, facendo prendere tempestivamente posizione alla Chiesa su una questione che sarebbe stata sempre più al centro delle problematiche legate alla convivenza internazionale. Lo fece in modo intuitivo, che sembrò ottimistico e addirittura utopistico. Ma bisogna riconoscere che molte delle cose che l’enciclica enunciava e che allora furono derise, o definite soluzioni proposte da incompetenti, risuonano da anni nei documenti dell’ONU e il fatto che il peso delle dimensioni umane nello sviluppo sia andato crescendo e che queste dimensioni non siano certamente riducibili alla sola economia,è oramai un dato acquisito: non c’è Rapporto sullo sviluppo che non ne tenga conto[21]. Del resto, secondo la mia esperienza personale, quando cominciai il mio servizio presso la Pontificia Commissione Iustitia et Pax, come si chiamava allora, nel 1975, quando si parlava di sviluppo, specie nell’ambito internazionale, nelle agenzie delle Nazioni Unite, se ne parlava essenzialmente in termini di crescita economica, di PIL. Come è risaputo, da allora molto è cambiato e lo sviluppo viene inteso, almeno a parole, come sviluppo sociale centrato sulla persona in relazione con l’ambiente. Il primo dei 27 punti della Dichiarazione di Rio del 1992, sullo sviluppo sostenibile afferma infatti: “Gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura”. Per quello che riguarda il nostro tema, è interessante ricordare che dal 1990 l’UNDP, il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, ha adottato l’Indice di Sviluppo Umano (ISU) come misura dello sviluppo alternativa al PIL. Tale indice identifica lo sviluppo umano con l’aumento delle possibilità di scelta di cui dispongono le persone. Ora, a parte gli orientamenti di scelta diversi delle persone, non fosse che in virtù delle diversità culturali, tre opzioni di fondo sono condivise: condurre una vita lunga e sana (salute), acquisire conoscenze (istruzione), disporre delle risorse necessarie per un tenore di vita dignitoso. L’UNDP, inoltre, ha affrontato, nel 2001 (prima ed unica volta, finora, per la verità) la questione dell’impatto della tecnologia sullo sviluppo[22] e, per misurarlo ha ideato l’Indice di Progresso Tecnologico che mira a permettere la valutazione del livello di innovazione e di diffusione delle nuove tecnologie nei singoli Paesi per misurare la capacità di partecipare all’era della Rete.

Tutto questo per dire che nella comunità internazionale sono andate crescendo sempre più le istanze di giustizia e la consapevolezza dell’esigenza di lavorare per liberare dalla povertà un numero sempre maggiore di persone, di far sì che tutti possano disporre di acqua potabile e per gli usi necessari all’igiene, che la piaga dell’analfabetismo sia del tutto debellata, che si riduca la mortalità infantile sia migliorata la salute delle madri e ci si impegni a combattere il Virus dell’HIV, che siano offerte pari opportunità alle donne e assicurata la sostenibilità ambientale. Insomma, tutti abbiamo presenti gli 8 obiettivi di sviluppo del Millennio che, nel Vertice ONU del 2000, la comunità internazionale si era impegnata a raggiungere nel 2015 e i 27 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile che costituiscono l’Agenda 2030.

La Santa Sede ha partecipato attivamente alle negoziazioni, nella sua qualità di Osservatore presso le Nazioni Unite, dando il suo specifico apporto e potendo contare sulla sua indipendenza e sull’autorità morale esercitata attraverso l’azione diplomatica degli Osservatori Permanenti presso le diverse sedi e soprattutto dai Pontefici che, tutti, a partire dal Beato Paolo VI, si sono recati in visita alla sede di New York. Ultima, in ordine di tempo, la visita di Papa Francesco durante la 70.ma Sessione Generale dell’Assemblea dell’ONU che ha approvato, appunto, l’Agenda 2030. In quella circostanza, Papa Francesco ha pronunciato uno storico discorso[23] che costituisce la base della Nota della Santa Sede sull’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile presentata dall’Osservatore Permanente il 25 settembre 2016[24]. La Nota, pubblicata dal Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale nelle sei lingue ufficiali dell’ONU, oltre ad esprimere il compiacimento della Chiesa cattolica per le “lodevoli ed appropriare aspirazioni dell’Assemblea”[25], ne chiarisce la posizione su alcuni punti sui quali la Santa Sede ha espresso ufficialmente le sue riserve. Punti che hanno risvolti etici di particolare rilevanza.

4 La tecnologia al servizio dello sviluppo integrale di quale uomo?

Resta, allora, da chiedersi come mai, pur avendo visto con favore l’evoluzione del concetto di sviluppo nei dibatti della comunità internazionale e l’impegno solenne al raggiungimento di obiettivi che stanno grandemente a cuore alla Chiesa, la Santa Sede abbia sentito il dovere di puntualizzare la sua posizione con delle precise riserve.

Il fatto è che nella visione della Chiesa, la dimensione trascendente –essenziale per la completezza della persona – è il vero motore dello sviluppo: nel disegno di Dio, ogni uomo e ogni donna è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione[26]e comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti[27].

Insomma, questa visione sottintende l’antropologia cristiana, che non viene forse troppo esplicitata definendo il tipo di uomo che si intende sviluppare (o forse non viene capita). E ciò comporta il rischio che ci si trovi teoricamente d’accordo, ma avendo in mente modelli di uomo diversi[28].

Non c’è dubbio che il progresso vertiginoso delle tecnologie abbia contribuito in grande misura ad aumentare questo fraintendimento. Lo dimostra lo spazio via via crescente che il Magistero sociale degli ultimi Pontefici dedica alla tecnologia mettendola in rapporto con la natura intrinseca della persona. In ogni documento, accanto ad un atteggiamento di stupore per le capacità dell’ingegno umano e di consapevolezza degli enormi benefici apportati dalle scoperte scientifiche e dalle tecnologie, è innegabile una crescente preoccupazione verso una tecnica che, da strumento della libertà della persona, sembra tendere a trasformarsi in strumento di libertà assoluta che prescinde dai limiti che le cose portano con sé[29].

Vent’anni dopo gli avvertimenti della Populorum progressio, la Sollicitudo rei socialis imputa il formarsi delle strutture di peccato anche all’idolatria delle tecnologie che, con altre idolatrie, si cela dietro gli imperialismi moderni[30].

Sempre San Giovanni Paolo II, nella Centesimus annus, rilevava con apprensione come il progresso scientifico e tecnologico venisse a volte trasformato in strumenti di guerra per produrre armi sempre più distruttive[31], mentre, denunciava su un altro versante, quello della vita, certe nuove pericolose tecniche. Queste, affermava, assecondando campagne sistematiche contro la natalità, “estendono il loro raggio di azione fino ad arrivare ad una “guerra chimica” che avvelena la vita di milioni di esseri umani indifesi”[32]. E, ancora, sempre nella Centesimus annus Papa Wojtyła sottolineava come, rispetto alla proprietà della terra, andasse sempre più acquisendo importanza la proprietà della conoscenza, della tecnica e del sapere detenuta principalmente dalle nazioni industrializzate sulla quale queste ultime fondano la loro ricchezza[33]. Da qui, il passo all’aumento delle disuguaglianze è breve.

Gli ultimi progressi della tecnologia e il potere che quest’ultima andava acquistando sulla mentalità dell’uomo contemporaneo indussero, poi, Papa Benedetto XVI a parlare di “ideologia tecnocratica” e a dedicare a questo argomento l’ultimo capitolo dell’enciclica Caritas in veritate. Il Papa vi paventava la possibilità che, a causa del processo di globalizzazione, le ideologie potessero essere sostituite con la tecnica divenendo essa stessa, a sua volta, un potere ideologico. Se le cose evolvessero veramente in questa direzione, ci troveremmo tutti – affermava il Papa Emerito – a valutare e decidere le situazioni della vita dall’interno di un “orizzonte culturale tecnocratico” senza mai riuscire a trovare un senso che non sia prodotto da noi. “Questa visione- affermava ancora la Caritas in veritate – rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato”[34], così come viene negato quando lo si considera un problema di ingegneria finanziaria, di apertura dei mercati, di abbattimento di dazi, di investimenti produttivi, di riforme istituzionali. Infatti, quando prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini e mezzi, l’imprenditore considererà come unico criterio d’azione il massimo profitto della produzione; il politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte[35].

Papa Francesco, infine, nel 3° capitolo della sua enciclica Laudato si’sulla cura della casa comune, capitolo dedicato alla radice umana della crisi ecologica, approfondisce la riflessione del suo predecessore, sulla falsariga, anche lui, del pensiero del teologo Romano Guardini. Il Papa, nella descrizione di quello che definisce “paradigma tecnocratico” che domina nel mondo contemporaneo, individua l’origine della crisi ecologica in un antropocentrismo deviato di un uomo che considera che ogni acquisto di potenza sia progresso ma che, allo stesso tempo, non è stato educato all’uso della potenza[36].

In tale paradigma tecnologico, afferma Papa Francesco, il soggetto considera di trovarsi “di fronte alla realtà informe totalmente disponibile alla sua manipolazione”[37]. L’intervento dell’essere umano sulla natura si è sempre verificato, ma per molto tempo, scrive ancora il Papa, questo intervento accompagnava, assecondava le possibilità offerte dalle cose: “si trattava di ricevere quello che la realtà naturale da sé permette, come tendendo la mano. Viceversa, ora, ciò che interessa è estrarre tutto quanto è possibile dalle cose attraverso l’imposizione della mano umana … Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia”[38]. Ma, in sostanza, ricorda con efficacia Papa Francesco, “noi non siamo Dio”[39]!

5 Per un uomo e una donna consapevoli delle sfide poste dalla tecnologia

Ma non è per oscurantismo che la Chiesa mette in guardia nei confronti delle derive in cui il paradigma tecnologico può trascinare gli uomini e le donne del nostro tempo.

Il fatto è che ogni epoca tende a sviluppare una scarsa autocoscienza dei propri limiti e oggi questa tendenza è più forte e più pericolosa proprio a motivo della serietà delle sfide che presentano le nuove tecnologie ed esiste concretamente la possibilità che l’uomo usi male del potere crescente che esse gli conferiscono[40].

Tali sfide sono numerose, ma qui non accennerò che alle due che mi sembrano più incombenti, per non dire minacciose. Quella posta dalla biotecnologia che tocca i problemi della salute e della vita umana, e quella posta dalla quarta rivoluzione industriale al mondo del lavoro.

Gli straordinari progressi compiuti in campo sanitario grazie alla tecnologia e alle biotecnologie in generale, costituiscono certo motivo di grande soddisfazione. I dati resi noti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2016 parlano chiaro e sono confortanti. Essi informano che l’aspettativa di vita, tra il 2000 e il 2015, è aumentata, ovunque nel mondo, di cinque anni. Si tratta dell’aumento più rapido dal 1960. Su scala mondiale, l’aspettativa di vita per un bambino nato nel 2015 è 71,4 anni, ma ancora persistono divari importanti. L’aspettativa di vita media dei neonati di un gruppo di 22 Paesi dell’ Africa sub-sahariana è di venti anni inferiore a quello dei neonati di un gruppo di 29 Paesi ad alto reddito. Ciononostante, globalmente, negli ultimi anni, l’aumento più consistente della speranza di vita è stato osservato nella regione africana, grazie soprattutto ai progressi nella sopravvivenza infantile, nel controllo della malaria e all’accesso agli antiretrovirali per il trattamento dell’infezione da Hiv[41]. Non posso non menzionare, in questo ambito, i meriti delle istituzioni sanitarie della Chiesa, ma anche dei semplici missionari, non fosse altro che per l’opera educativa che svolgono nel campo dell’igiene nei Paesi poveri.

Certo, quelli appena letti sono numeri e, razionalmente, provocano, appunto, compiacimento, ma da un punto di vista emotivo, quante volte ci sentiamo pieni di gratitudine verso quel chirurgo che ha salvato un nostro genitore, un nostro figlio, nella consapevolezza, comunque, che trent’anni fa o anche solo dieci anni fa questo non sarebbe stato possibile? Ma, come è noto, l’applicazione di alcune tecniche nel campo della salute hanno risvolti di carattere etico di tale portata da interpellare in profondità la coscienza umana che, di fronte alla scelta del loro uso o meno, vede messa in gioco la stessa visione dell’essere umano, del suo essere una unità di corpo e spirito, della sua dignità intrinseca. I progressi rapidissimi compiuti in questi due decenni hanno spinto l’ex Pontificio Consiglio per la Pastorale della Salute a pubblicare, appena l’anno passato, una Nuova Carta per sostenere – seguendo le tappe del generare, vivere e morire – la fedeltà etica dell’operatore sanitario, nelle scelte e nei comportamenti in cui rende servizio alla vita[42].

Non è questa la sede per approfondire un argomento di tale rilevanza, né avrei le competenze per farlo, vorrei comunque attirare l’attenzione su quello che mi sembra essere uno dei punti più controversi sui quali si polarizza, attualmente, il momento del discernimento: l’avvento di una sorta di “culto” della qualità della vita. Si pensi all’aborto, praticato al minimo sospetto di rischio genetico (pare che in Islanda non ci siano più persone affette da trisomia 21) o all’eutanasia come intervento compassionevole per eliminare la sofferenza. Esempi, questi, della cultura dello scarto della quale parla Papa Francesco. Ebbene, chi decide quando una vita vale la pena di essere vissuta? Il medico, il paziente, i familiari? Sono gli interrogativi che ci accade di porci sempre più spesso a causa delle tecnologie sempre più perfezionate di cui si dispone. A volte questi interrogativi diventano quelli di tutta un’opinione pubblica, oggi giorno globalizzata. E’ il caso, ad esempio, del piccolo Charlie Gard in cui – fermo restando il dovere di resistere alla tentazione di giudicare della sua qualità della vita – la valutazione equilibrata dei principi basilari della bioetica si è vista confrontata ad una tecnologia in certo senso “disumanizzante”[43]. Questa tristissima vicenda ha avuto, comunque, un risvolto positivo: ha portato un’opinione pubblica, distratta spesso da futilità, ad interrogarsi in maniera corale su questioni che hanno a che vedere con le ragioni del vivere e del morire che si pongono oggi in modo profondamente nuovo.

La seconda sfida, come si diceva, è quella posta dalla quarta rivoluzione industriale o, secondo il linguaggio corrente, da Industria 4.0. Qui i dati, o, piuttosto, le previsioni riguardanti l’impatto delle nuove tecnologie digitali e delle macchine intelligenti sull’occupazione sono contrastanti: accanto a quelle “catastrofiche” del World Economic Forum (contro 2 milioni di posti di lavoro creati grazie alle nuove tecnologie, se ne perderebbero 7 milioni), ci sono quelle più possibiliste dell’OCSE[44]. Comunque sia, resta il problema di un prevedibile ulteriore aumento delle disuguaglianze, nei redditi e anche a causa delle tendenze del lavoro in generale. Questo, infatti, sembra assumere la forma di una clessidra: si riduce la classe media per la riduzione di alcuni tipici lavori di ufficio che possono svolgere le macchine, restano a monte i creativi in grado di innovare e di padroneggiare le tecnologie mentre rimangono a valle una serie di basse qualifiche come i “fattorini digitali” e i braccianti agricoli. Di fronte a questa situazione si rivelano necessari provvedimenti su più fronti: da una parte quello delle politiche fiscali ridistributive che riescano a tassare la nuova ricchezza (una parte crescente di questa è appannaggio dei proprietari delle macchine) anche a livello internazionale, quello di una governance dell’innovazione tecnologica attraverso organismi e istituzioni adeguate e, dall’altro, quello di un cambiamento culturale che tenga conto della necessità di trasformazione e sostituzione, più rapida che nel passato, di vecchie occupazioni con nuove. Da qui la necessità di incoraggiare la capacità ad adattarsi al cambiamento e creare, dove possibile, un’alleanza con la tecnologia considerandola per quello che veramente è, un supporto e non un sostituto dell’uomo[45]. Importante, inoltre, che i giovani abbiano la consapevolezza che l’impresa non è più solo il luogo dell’esecuzione, ma anche quello della creazione e condivisione di sapere e che in non pochi settori l’uomo e la donna sono insostituibili. Proprio per questo motivo, il mondo del lavoro avrà bisogno, nella fase attuale, più che di specialisti di persone mature e solide, in cui conta più la loro personalità, la loro vocazione e anche le loro passioni. Persone simili vengono formate più che da un trasferimento di nozioni, da un trasferimento di esperienze che mira a formare professionisti più che professionalità[46].

Sono ben consapevole di aver trascurato, altre due sfide epocali per lo sviluppo umano in cui l’impatto delle tecnologie è l’elemento cruciale, quella ambientale e quella degli armamenti. A questo proposito darò solo due input informativi di carattere istituzionale. Riguardo al tema ambientale, segnalo che appena ieri si è chiusa ad Astana l’EXPO 2017 dedicata all’energia del futuro in cui la Santa Sede era rappresentata con un padiglione ideato e realizzato dall’ex Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Questo padiglione ospitava al suo interno la descrizione di buone e di cattive pratiche dell’uso dell’energia[47]. Riguardo al secondo tema, il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale sta organizzando, sulla scia dell’adozione da parte dell’Assemblea generale dell’ONU del Trattato di messa al bando delle armi nucleari in vista di una loro totale eliminazione[48], una grande Conferenza intitolata “Per mondo libero dalle armi nucleari” che si terrà in Vaticano nel mese di novembre.

6 Una tecnologia per lo sviluppo partecipativo di ogni uomo e di tutto l’uomo

In questa ultima parte della mia relazione vorrei invece spendere ancora qualche minuto per mettere rapidamente in risalto l’apporto positivo dato allo sviluppo integrale dai mezzi di comunicazione che, sottolineo ancora una volta, come gli altri strumenti tecnologici, sono ambivalenti. E, anzi, lo sono forse di più perché più facilmente alla portata di tutti. E’ innegabile che i cosiddetti “social” usati male disseminino “fake news” o possano rovinare la reputazione delle persone, specie di giovani, con conseguenze a volte tragiche. E’ comunque vero che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT) hanno il grande pregio di facilitare enormemente, tramite le informazioni che giungono in tempo reale in ogni parte del pianeta, la vita relazionale così importante per l’essere umano e la sua partecipazione sociale. Su un piano personale, il whatsapp, poi, non ha forse rilanciato le relazioni familiari e amichevoli che nel nostro mondo globalizzato rischiano spesso di affievolirsi?

Inoltre, almeno in Occidente, già da molto tempo, gli strumenti classici della comunicazione hanno servito la causa della democrazia nei suoi diversi aspetti: democrazia politica, economica, culturale e valoriale. Ma la rivoluzione digitale, cancellando distanze fisiche e temporali ha fatto di più, espandendo in modo esponenziale la possibilità di partecipazione. Ne è testimonianza, ad esempio, il movimento delle primavere arabe, oppure, nel bene e nel male, la nascita di movimenti politici che fanno uso della rete per appellarsi direttamente ai loro aderenti.

Sul fronte dell’istruzione, poi, il contributo che ha offerto e offre la tecnologia delle comunicazioni è molteplice tanto che il settore pubblico lo ha sempre promosso specie dall’inizio dell’esistenza della televisione. L’esempio della trasmissione televisiva americana Sesame Street è dei più convincenti. Andata in onda per la prima volta nel 1969, ha milioni di telespettatori in oltre 150 Paesi, un impatto sociale notevole e si pone come scopo, tramite un’educazione precoce, di aiutare i bambini di tutto il mondo a crescere “più svegli, più forti e più gentili usando il potere dei media e degli amati Muppets (pupazzi)”[49]. Le possibilità che offrono, poi, le connessioni skype in questo settore sono straordinarie e favoriscono anche uno sviluppo solidale. Ho assistito io stessa con commozione, da Roma, ad una lezione d’inglese personalizzata impartita da una insegnante di un centro di aiuto a ragazzine in difficoltà della California ad una ragazzina nelle Filippine![50]

Vorrei ora terminare con un piccolo elogio della radio, incoraggiata, come sono, a farlo dal servizio offerto dalla Radio Vaticana, dai suoi giornalisti e dai suoi tecnici altamente specializzati. Un esempio, per me, della gratuità della tecnica.

La radio, specie quella a transistor, che si può comperare oramai ovunque a bassissimo prezzo – e si può ascoltare gratis! -, continua ad avere una diffusione enorme specialmente nei Paesi in via di sviluppo. In questi Paesi, accanto alla propaganda politica che a volte ha scopi letteralmente criminali ed esiti drammatici – ricordiamo tutti le responsabilità della Radio Mille Collines nel genocidio del Ruanda del 1994 -, il mezzo radiofonico è efficacissimo strumento di informazione, di formazione, di aiuto agli agricoltori. Basta sfogliare un numero della rivista del Servizio “tecnico-pastorale” Signis[51] per averne un’idea. Nell’ultimo numero trovo, ad esempio, un articolo che descrive l’attività di Radio Zereda che con altre 11 stazioni radio trasmette quelli che definiscono messaggi “Come Home” con i quali convincono i combattenti della Lord’s Resistance Army nella Repubblica Centrafricana a deporre le armi. Ora, la maggior parte di questi combattenti sono bambini soldato…[52] e sempre la stessa rivista dà conto della creazione, in Panama, della prima rete di radio comunitarie indigene che contribuisce alla difesa dei diritti, della cultura, delle terre delle popolazioni indigene, dell’emancipazione della donna. Veramente, queste emittenti radio si rivelano un potente mezzo di sviluppo di ogni uomo e di ogni donna e son orgogliosa di poter citare, a questo proposito, l’aiuto prestato dalla Radio Vaticana all’installazione di stazioni radio che hanno avuto anche un ruolo di primo piano nella vita pubblica dei Paesi in via di sviluppo. Menziono solo due casi perché ho conosciuto e conosco i tecnici che hanno collaborato alla loro creazione, quello di Radio Pax in Mozambico, nel 1969 (iniziava allora la guerra di indipendenza dal Portogallo) e quello di Radio Veritas nelle Filippine, una stazione radio destinata a far giungere la voce dei cattolici in tutto l’Estremo Oriente.

Ma la radio è un potentissimo strumento di sviluppo di tutta la persona umana, anche nella sua dimensione spirituale, morale e religiosa. E’ la consapevolezza di questa potenzialità che ha determinato i Pontefici a prestare da sempre alla radio una grande attenzione, tanto che le prime emissioni ebbero luogo già nel 1931. Sembra che Pio XI, in giorno dell’inaugurazione, abbia chiesto a Guglielmo Marconi: “Sarò stato ascoltato dai Missionari in Africa e in Asia?” e qualche anno dopo durante la seconda guerra mondiale la Radio Vaticana istituì l’Ufficio Ricerche dei Prigionieri dispersi. Lavorando in collaborazione con la Croce Rossa, le Nunziature, le Ambasciate, le Parrocchie, gli Ordini religiosi, riuscì a dare notizie dei propri cari ad oltre 2 milioni di famiglie. E quanto conforto diede la Radio Vaticana ai cattolici oltre la cortina di ferro, lo si venne a sapere dopo la caduta del muro di Berlino… Non sono forse, questi, esempi di gratuità della tecnica? E. ancora, in occasione del recentissimo viaggio del Santo Padre in Colombia, ci è stato ricordato come fra il 1947 e il 1994 la Radio Satutenza, realizzata da Mons. José Joaquín Salcedo, ha alfabetizzato più di 8 milioni di contadini[53].

Pensando alla radio come strumento attraverso il quale si realizzano tante opere buone, si può veramente affermare che “lo strumento produce effetti che superano la sua stessa natura (e sono dunque in qualche modo “soprannaturali”) perché subisce l’azione di una natura più alta della sua”[54]. Ma è così per ogni strumento della tecnoscienza che, se ben orientata, afferma Papa Francesco, “è in grado non solo di produrre cose realmente preziose per migliorare la qualità della vita dell’essere umano… (ma) anche di produrre il bello e di far compiere all’essere umano, immerso nel mondo materiale, il “salto” nell’ambito della bellezza…. In tal modo, nel desiderio di bellezza dell’artefice e in chi quella bellezza contempla si compie il salto verso una certa pienezza propriamente umana.

[1] Paolo VI, Populorum progressio, n. 34.

[2] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate, n.14; Cfr. Mucci, G., s.j., L’ambivalenza della tecnica nell’enciclia Caritas in veritate, La Civiltà Cattolica, 2009, IV 319-326.

[3] Cfr. Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 34-39.

[4] Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, n.16.

[5] ibid.

[6] Cfr. Benedetto XVI, Spe salvi, n. 22.

[7] ibid, n.23.

[8] ibid.

[9] Francesco, Laudato si’, n. 112.

[10] Cfr. Salvini, G., s.j., 40 ani dopo la Populorum progressio, La Civiltà Cattollica, 2007, III 41-53.

[11] ibid.

[12] Populorum progressio, n.14.

[13] Cfr. Nicastro A., Congo, l’inferno del Coltan e la manodopera della disperazione, in Corriere della Sera, 15 aprile 2017, http://www.corriere.it/esteri/17_aprile_13/inferno-coltan-2adccda8-2218-11e7-807d-a69c30112ddd.shtml.

[14] Cfr. Maggiore, D., Zambia: la miniera usa e getta, Mondo e Missione, 15 settembre 2015, http://www.mondoemissione.it/africa/zambia-la-miniera-usa-e-getta/ .

[15] Papa Francesco è tornato più volte sull’argomento. All’udienza del mercoledì 11 novembre 2015 si raccomandava di non trasformare una famiglia in un pensionato usando a tavola i telefonini.

[16] Attanasio – Giorgi, Sole, internet, telefonini: la rivoluzione in Africa, 10 aprile 2017, in http://www.pagina99.it/2017/04/10/africa-tecnologia-innovazione-smartphone/

[17] E’ il caso, ad esempio, del giovane Ackeem Ngwenya del Malawi che si è perfezionato in una università tedesca ed ha ideato ruote adattabili alle strade di pessima qualità del Malawi consentendo ai contadini di portare ai mercati i loro prodotti senza ricorrrere al trasporto “sulla testa” effettuato abitualmente da donne e bambini. Cfr., Lewis-Gayle, O., Harambeans, Harambee Bretton Woods Press, 2015, p. 23.

[18] “Le tecnologie e i loro trasferimenti costituiscono oggi uno dei principali problemi dell’interscambio internazionale e dei gravi danni, che ne derivano. Non sono rari i casi di Paesi in via di sviluppo, a cui si negano le tecnologie necessarie o si inviano quelle inutili”, Sollicitudo rei socialis, n.43.

[19] Cfr. Minnerath, R., La novità del magistero sociale di Paolo VI e la sua risonanza nei Pontefici successivi, in Citterio F., ed., Questione sociale, questione mondiale. La permanente attualità del magistero di Paolo VI, Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa, Studi, 3, Milano, Vita e Pensiero, 2017.

[20] Populorum progressio, n.76.

[21] Cfr. Salvini, s.j., 40 anni dopo la Populorum … op. cit., p.43.

[22] UNDP Human Development Report 2001, Making New Technologies Work for Human Development

[23] Francesco, Discorso ai Membri dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, New York, 25 settembre 2015.

[24] Dicastery for Promoting Integral Human Development, Note of the Holy See Regarding the 2030 Agenda for Sustainable Development, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2017.

[25] Ibid., p.10.

[26] Populorum progressio, n.15.

[27] Varitas in veritate, n.11

[28] Salvini, G., s.j., 40 anni dopo la Populorum…op. cit., p.45.

[29] Caritas in veritate, n.70.

[30] Cfr. Sollicitudo rei socialis, n.37.

[31] Cfr. Centesimus annus, n.18.

[32] Ibid., n.39.

[33] Cfr. Ibid., n.32.

[34] Ibid., n.70.

[35] Cfr. Ibid., n.71.

[36] Cfr. Laudato si’, n.105.

[37] Ibid., n.106

[38] Ibid.

[39] Ibid., n.67.

[40] Cfr. Ibid., n.105.

[41] http://www.who.int/gho/mortality_burden_disease/life_tables/situation_trends_text/en/

[42] Cfr. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, Nuova Carta degli Operatori Sanitari, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2016.

[43] A questo proposito due interessanti articoli sono apparsi sul quotidiano della Conferenza episcopale italiana, Avvenire del 15 agosto 2017: Charlie e le domande che restano aperte.

[44] Cfr. Comelli, E., Come la macchina sposterà il lavoro, 26 gennaio 2016, http://nova.ilsole24ore.com/frontiere/come-la-macchina-spostera-il-lavoro/

[45] Cfr. Schito, A., Lavoro 4.0: intelligenza artificiale, autonomia e fattore umano, Benecomune.net, luglio/agosto 2017 http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=2289

[46] Seghezzi, F. e Tiraboschi, M., Un lavoro di personalità, in Avvenire, 24 agosto 2017 p.3.

[47] http://www.iustitiaetpax.va/content/giustiziaepace/it/speciale-EXPO2017.html

[48] Si tratta di uno strumento giuridicamente vincolante, cfr. A/CONF.229/2017/L.X July 2017.

[49] https://www.sesamestreet.org/.

[50] https://www.childrenofthenight.org/wow/

[51] Signis è il servizio tecnico-pastorale che orienta e accompagna istituzioni missionarie, organismi cattolici e organizzazioni non governative che operano nei paesi meno industrializzati nell’acquisto e studio progettuale delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione

[52] Cfr. Radio for peace in Central Africa, Signis Media, n.2-2017, pp. 22-23 http://invisiblechildren.com/blog/2017/05/31/radio-zereda-radio-peace/

[53] Cfr. Radio Satutenza, la “escuela” de campesinos colombianos, El Expectador, 14 de Abril de 2015, http://www.elespectador.com/noticias/nacional/radio-sutatenza-escuela-de-campesinos-colombianos-articulo-555878.

[54] Hadjadj, F., La magia nascosta nello strumento, in Avvenire 16 luglio 2017, p 22.